Leonardo e la “sperienza di Monboso”

Testo di Angelo Recalcati  pubblicato in Raccolta Vinciana, vol XXXV, 2013, pp. 47-62

Il viaggio al Monboso di Leonardo assume un particolare significato considerandolo nel processo della lenta evoluzione del sentimento della Natura Alpestre che caratterizza la civiltà occidentale. Le montagne erano da sempre considerate ‘locus horridus’, così definite dall’estetica classica nei cui canoni rientrava solo la natura addomesticata dall’uomo: il giardino, la campagna ben coltivata, ciò che veniva definito ‘locus amoenus’. Solo dalla fine del Seicento gli inediti stimoli espressi dalla nuova estetica del sublime, associati al successivo interesse che le Alpi potevano avere dal punto di vista scientifico, hanno prodotto un nuovo e attraente richiamo verso il mondo alpestre. Tuttavia la piena consapevolezza di una partecipata visione intensamente drammatica della natura alpina è già chiaramente espressa in molti scritti di Leonardo e nelle sue più importanti opere pittoriche. Questa sua è la prima testimonianza nota di una salita nelle alte regioni alpine motivata da stimoli estetico-conoscitivi; egli fu quindi un precursore nel ‘vedere’ le montagne e la natura in genere con lo stesso occhio indagatore e con la stessa sensibilità dell’uomo moderno, e fu ben consapevole di aver vissuto un’esperienza del tutto inedita. “...E questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra Monboso giogo dell’Alpi...” Con questa frase del codice Leicester, in cui traspare l’ accento epico che rimanda ad un’esperienza straordinaria, Leonardo ha voluto confermare, a chi ne fosse stato scettico, la sua avventura alpina e le considerazioni sui fenomeni naturali osservati, e fugare dubbi e incredulità legittimi al suo tempo, dal momento che l’esperienza dell’alta montagna cesserà di essere raro e singolare episodio per diventare patrimonio comune solo tre secoli dopo(1). Episodio singolare e significativo nell’evoluzione del sentimento della Natura Alpestre, per di più vissuto e descritto con una consapevolezza e uno spirito indagatore mai prima messi in campo. Merita quindi di essere chiarito fin dove è possibile in quegli aspetti, in particolare cronologici, sui quali abbondano affermazioni inesatte o fantasiose come molto spesso accade per Leonardo, anche a causa della scarsità di riferimenti biografici che ritroviamo nei suoi manoscritti e del carattere spesso impersonale con cui località vengono citate nelle sue annotazioni, il che non implica automaticamente una sua conoscenza diretta. La testimonianza di Leonardo è contenuta nel Codice Leicester, che ha per tema la Natura e i suoi fenomeni, in particolare il moto delle acque, ma anche l’astronomia, la geologia ed altri temi connessi. E’ attualmente costituito da 18 bifogli(2) e la parte che più ci interessa si trova nella Carta 4A, foglio 4r, secondo la numerazione di Carlo Pedretti(3), ed è intitolata “Del colore dell’aria”. Ecco il brano per noi più significativo: “Dico l’azzurro in che si mostra l’aria non esser suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili attimi, la quale piglia dopo se la percussion de’ razzi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco(4), che di sopra le fa coperchio. E questo vedrà come vidi’o, chi andrà sopra Monboso giogo dell’Alpi che dividono la Francia dall’Italia la qual montagnia ha la sua basa che parturisce li 4 fiumi(5) che rigan per 4 aspetti contrari tutta l’Europa, e nessuna montagnia ha sue base in simile altezza; questa si leva in tanta altura che quasi passa tutti li nuvoli e rare volte vi cade neve, ma sol grandine d’istate quando li nuvoli sono nella maggiore altezza, e questa grandine vi si conserva in modo, che se non fusse la raretà del cadervi e del montarvi nuvoli che non accade 2 volte ’n una età, e’ vi sarebbe una altissima quantità di diaccio inalzato da li gradi della grandine, il uale di mezzo luglio vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa e ’l sole che percotea la montagnia essere più luminoso quivi assai che nelle basse pianure, perché minor grossezza d’aria s’interponea infra la cima d’esso monte e ’l sole.
Per provare la veridicità delle sue affermazioni, del tutto inedite ai suoi tempi, Leonardo nelle righe seguenti invita a osservare come il fumo di legna secca visto contro una superficie scura sia azzurrognolo. Con il medesimo scopo persuasivo, in un’altra pagina del codice (Carta 1B, foglio 36r) Leonardo cita ancora il suo viaggio al Monboso, scrive infatti: “È sperienza che mostra come l’aria ha dopo sé tenebre e però pare azzurra” e continua descrivendo l’esperimento fatto bruciando legna e osservando con varie modalità l’effetto del colore del fumo “per mostrare che l’azzurro dell’aria è causato di oscurità che è sopra di lei, e dànnosi li predetti esempi a chi non confermasse la sperienzia di Monboso”.
Ciò che evidenziamo subito in queste pagine è il fondamento sperimentale delle sue interpretazioni. La sapienza è figliola della sperienzia(6) è un motto che spesso ricorre nei suoi scritti ed è uno dei caratteri più distintivi del suo abito mentale, privo di molti di quei condizionamenti culturali e di metodo del suo tempo che ne avrebbero limitato o impedito una elaborazione intellettuale libera ed originale, dove Scienza e Arte sono le componenti essenziali nel tendere ad una forma di conoscenza creativa totale. Rivelatore di questa concezione è in particolare il “Libro di Pittura”, l’unica sua opera teorica che, direttamente o no, abbia avuto ampia diffusione(7). In essa Leonardo dedica ampio spazio alla visione della montagna, vi troviamo infatti trattati diversi argomenti connessi, come ‘Delle ombrosità e chiarezze dei monti’, capitoli 791-821; ‘Da chi nasce l’azzurro dell’aria’, al cap. 243 strettamente legato alla sopracitata pagina del Codice Leicester, come pure il cap. 226; ‘Del colore delle montagne’ al cap. 260; nei cap. 518 e 519 si analizza la visione lontana dei monti sia da un punto elevato che dal basso e nel capitolo 747 si studiano le ombre di una montagna. Queste sue enunciazioni provano la sua diretta esperienza in un ambiente alpino. Solo da questa avrebbe potuto dedurre la principale osservazione dalla quale conseguono la maggior parte delle tesi esposte: la densità e la temperatura dell’aria diminuiscono con l’altezza (cap. 799), con la duplice conseguenza nei riguardi sia della visione della montagna con le variazioni di luci, ombre e colori a seconda dei diversi piani visivi, che dell’aspetto della natura alpina con il mutamento dei caratteri della vegetazione e dei fenomeni meteorologici con l’altitudine. Solo l’esperienza diretta gli ha potuto suggerire le tesi sui “nicchi” (fossili), sulla stratificazione delle rocce, sulla formazione delle montagne e sulla loro erosione da parte delle piogge e dei fiumi (cap. 804, 805, 806), tesi riassunte nella sua concezione dinamica ed evolutiva della superficie terrestre, che occupano numerose pagine del Codice Leicester.

Dove Leonardo ha compiuto la sua ascensione?
Al tempo di Leonardo la frequentazione delle alte regioni alpine era limitata al passaggio dei tradizionali grandi valichi: esperienza faticosa, pericolosa e drammatica, eseguita per necessità militari, di commercio, di devozione religiosa o per improrogabili impegni di viaggio personali. A quote più elevate, come nelle testate delle valli attorno al versante meridionale del Monte Rosa, si potevano spingere solo le popolazioni locali le quali, avendone dissodato e reso coltivabili i terreni alle quote meno elevate sin dalla fine del XIII secolo, estendevano le loro attività fino alle più alte zone pascolive ed oltre, per transitare gli alti passi di collegamento tra le valli adiacenti, acquisendo così una conoscenza del territorio e una capacità di percorrerlo tale da renderle guide esperte, delle quali anche Leonardo potrebbe essersi giovato per salire in quell’aspro territorio. Il raggiungimento di quote elevate, sopra i 3000 m, poteva allora essere facilitato anche dal fatto che fino a tutto il XV secolo le Alpi si trovavano in una situazione climatica caratterizzata da temperature medie più elevate con la conseguente forte riduzione delle superfici glaciali ed un innalzamento dei limiti di quota per le specie vegetali, mentre un brusco raffreddamento del clima è stato documentato dopo il 1505(8). Questo aspetto climatico potrebbe spiegare anche la ragione della prevalenza col tempo del toponimo “Monte Rosa” rispetto all’antica denominazione di “Monboso”, come più avanti si mostrerà. La più antica testimonianza toponomastica sul M. Rosa va riferita ad un’opera storica del 1365, il De Bello Canepiciano di Pietro Azario(9), data alle stampe solo quattro secoli più tardi. Questo testo contiene una descrizione del Canavese in cui si cita “...Montanea Boxeni, quæ montanas partes Lombardiæ superexcellit, & de qua nives & glacies numquam recesserunt a principio Mundi(10)”. A questa denominazione segue, un secolo dopo, quella di Monboso; la ritroviamo infatti nell’opera geografica di Flavio Biondo, Italia Illustrata, la cui prima redazione, in latino, risale al 1451, e la prima edizione a stampa nel 1507. Nel capitolo riguardante la Lombardia (alla quale il Monte Rosa ha appartenuto fino ai primi anni del ’700) l’autore descrive il monte Boso come “il più alto d’Italia e sempre anche nel mezzo dell’estate coperto di spesse nevi e non vi si può per via alcuna del mondo andar su”. Questa denominazione viene ripresa anche da Leandro Alberti nella sua Descritione di tutta l’Italia… con numerose edizioni dal 1551, che indica anche un itinerario in quota che si snoda lungo il suo versante meridionale. Si noti che dalla fine del XVII secolo sulle carte troviamo spesso affiancati i toponimi Boso e Rosa, mentre nella seconda metà del XVIII secolo prevarrà definitivamente la denominazione Rosa. Una delle ipotesi etimologiche più accreditate per Monboso(11) è la sua derivazione da Bosus, che nel latino dei bassi tempi sta per Bosco e ciò ben corrisponde al fatto che questo toponimo fosse attribuito al massiccio montuoso le cui sommità erano sì riconosciute come coperte da nevi perpetue, ma il cui aspetto più caratteristico sembrerebbe sia stata la fitta coltre boscosa che ne ricopriva i fianchi del versante meridionale. Assai più folta e più estesa in altitudine, forse fino ai 2800 m, che nei secoli successivi al XVI secolo, quando il clima iniziò un raffreddamento che continuò sino alla metà del XIX secolo. Se ora consideriamo che Silvius Mons è l’antica denominazione data al Colle del Teodulo e anche allo stesso Monte Rosa(12), notiamo che altro non è che la traduzione nel latino degli eruditi del XVI secolo di Mont Servin che nei dialetti franco provenzali ha il significato di “monte delle selve”, del tutto analogo quindi a quello più probabile di Monboso. Si può quindi affermare che l’estesa presenza della vegetazione boschiva, favorita dalle condizioni meteorologiche presenti fino all’inizio del XVI secolo, era la caratteristica più evidente del versante meridionale della catena alpina tra la Valle d’Aosta e la Valsesia, che in sostanza il valico del Teodulo e il versante meridionale del massiccio del Monte Rosa venivano indicati con toponimi dal significato simile. Il prevalere nel massiccio montuoso della denominazione Rosa, che com’è noto in Val d’Aosta, ma anche in Engadina, indica montagne coperte da neve e ghiaccio, si verifica proprio con l’accentuarsi dei rigori climatici che determina un notevole abbassarsi del limite della vegetazione e un deciso accrescimento dei ghiacciai. La descrizione dell’ambiente e dei fenomeni meteorologici incontrati da Leonardo fanno presumere il suo raggiungimento di quote medio-alte, attorno i 3000 m. Leonardo riporta notizie meteorologiche evidentemente raccolte in loco: “rare volte vi cade neve, ma sol grandine d’istate quando li nuvoli sono nella maggiore altezza, e questa grandine vi si conserva in modo, che se non fusse la raretà del cadervi e del montarvi nuvoli che non accade 2 volte ‘n una età, e’ vi sarebbe una altissima quantità di diaccio inalzato dali gradi della grandine, il quale di mezzo luglio vi trovai grossissimo”. Mi sembra più corretto interpretare età come una abbreviazione di “estate” o nel senso di “stagione” (come una delle quattro età dell’anno) e non come tradotto in inglese “age” o, meno ancora, “generation”(13), traduzione non compatibile con le caratteristiche meteorologiche alpine, pur considerando il clima di quel tempo. Dalle parole successive (diaccio… il quale…vi trovai grossissimo) si può dedurre che Leonardo (più che agli effetti di un temporale estivo) si possa essere trovato davanti ad un ghiacciaio che abbia rivelato la tipica stratificazione costituita dai depositi della neve dei diversi anni che, prima di trasformarsi in ghiaccio, assume un aspetto granuloso, simile a grandine (inalzato dali gradi della grandine) dove grado, lemma che significa gradino, può essere interpretrato come “strato” (14). Si consideri anche che in alta montagna la grandine è costituita da nevischio ghiacciato (grésil) e non assume la consistenza di chicchi di grosso volume che talvolta si riscontrano in pianura. I testi e i documenti cartografici coevi indicano con Monboso soprattutto il versante meridionale del Monte Rosa, massiccio complesso e con sviluppate diramazioni di creste che racchiudono numerose valli. In particolare possiamo privilegiare la possibilità che abbia risalito una delle due vallate principali del versante Sud-orientale del massiccio, la Valle del Sesia, più accessibile, o quella dell’Anza che sbocca in Val d’Ossola, a quel tempo entrambi facenti parte del ducato di Milano. Da qui varie sono le possibilità che si sia alzato sopra gli alti alpeggi, o su una delle numerose e meno elevate cime che gli fanno corona o abbia attraversato uno dei contigui alti valichi(15). Solo dal XIX sec. con l’avvento della pratica dell’alpinismo quando si cita la salita di una montagna è implicito il giungere sulla sua cima, e quindi il “sopra Monboso” di Leonardo non deve intendersi riferito alle vette massime del Monte Rosa. È infatti da escludere la loro salita, poiché avvicinate solo dalla seconda metà del XVIII secolo e raggiunte nel XIX. Nulla di più può essere ipotizzato che, in assenza di nuovi documenti, non sia frutto di fantasie prive di fondamento. In passato, non sempre con ponderatezza, furono ipotizzate come mete raggiunte da Leonardo varie cime, a cominciare dal Monviso proposto da Douglas W. Freshfield(16), influenzato dalla vaga somiglianza tra Monboso e Monviso e dalla nota di Leonardo datata 2 gennaio 1511(17) sulla pietra bargiolina che si cava dal Monte Bracco a una ventina di km dal Monviso, e volendo correggere Jean Paul Richter(18) che invece correttamente proponeva il Monte Rosa. Il saggio di Gustavo Uzielli(19) riportava la discussione in un ambito più documentato, identificando il Monboso col Monte Rosa, ma astenendosi dall’indicare una precisa localizzazione. W.A.B. Coolidge(20) propose invece di identificare il Monboso col Monte Bo 2556 m che si alza tra il Biellese e la Valsesia. Accenniamo che nelle sue vicinanze c’è pure un Monte Bo di Valsesia 2071 m, posto poco a NW del primo. Recentemente tale possibile meta è stata considerata anche da Philippe Joutard(21). Tuttavia questa ipotesi, basata sulla semplice assonanza con Monboso, è riferita a una cima del tutto marginale e di ambiente tipicamente prealpino che non si accorda con la testimonianza prettamente alpina dei fenomeni osservati. L’identificazione del Monboso di Leonardo col Monte Rosa potrebbe essere messa in discussione laddove ne associa la caratteristica di massimo spartiacque alpino, allora generalmente attribuito alla regione del Gottardo. Secondo la concezione Tolemaica di spartiacque, opinione che perdurò fino al XVIII sec., i maggiori fiumi delle Alpi si originavano dalle montagne più elevate e poiché a quella regione sono riferibili le sorgenti di diversi dei maggiori fiumi europei, si riteneva che nella zona del Gottardo avesse sede il tetto delle Alpi. Pur nell’ambito di questa concezione Leonardo assegna invece tale caratteristica al Monboso-Monte Rosa, esprimendo in ciò una convinzione sul primato di altezza del monte, certamente maturata con l’esperienza personale di quota raggiunta sulle sue pendici e rafforzata dalla evidenza con cui la larga massa della montagna supera per altezza e imponenza ogni altra vetta delle Alpi quando vista da vaste zone della pianura Padana.

Telefoto del Monte Rosa dal centro di Milano (www.gusme.it)

Quando Leonardo effettuò questo viaggio alpino?
Nel suo testo abbiamo solo l’indicazione “di mezzo luglio”, ma non l’anno. Questo lo potremo dedurre solo molto approssimativamente e in un periodo che giustificheremo dopo una analisi critica delle ipotesi fin qui esposte. Il primo a compiere una approfondita indagine sulle esperienze alpine di Leonardo fu Gustavo Uzielli(22) . Nel suo esteso saggio commenta i passi dal Codice Atlantico per le annotazioni sulle Prealpi e Alpi Lombarde e dal Codice Leicester per l’andata al Monboso. Con un’ampia analisi sulla cartografia del Monte Rosa e sull’evoluzione della sua etimologia conferma la corrispondenza tra Monboso e Monte Rosa. Tuttavia accanto ad attente e puntuali disamine di documenti troviamo anche supposizioni prive di una vera verifica documentale e spesso basate solo su deboli indizi. In particolare, proprio al termine del primo paragrafo, Uzielli afferma: ”Comunque sia molti argomenti, che non è qui luogo di sviluppare, inducono a credere che egli facesse sovente, verso il 1511, viaggi nelle Alpi”. Purtroppo i “molti argomenti” di Uzielli non ci sono noti e tanto meno risultano da lui sviluppati altrove. Ma l’indicazione contenuta in quella frase da allora viene considerata come assodata, verificata. Viene presa per buona da W.A.B. Coolidge nella sua monumentale opera storica (23) e “vers 1511” è posto nel titolo del breve capitolo dedicato a Leonardo e al Monboso. L’autorevolezza di Coolidge è tale che quasi tutti i commentatori che seguiranno l’accoglieranno come un “concorde assunto”. Eccetto invece Francis Gribble(24) che, pure al corrente degli studi di Uzielli, però stima “the Alpine excursion undertaken by Leonardo da Vinci, toward the end of the fifteenth century.” Ma anche qui l’affermazione è senza una motivazione. A loro giustificazione si consideri che a quei tempi gli studi sui codici vinciani erano ancora ad una fase iniziale. Punto di svolta, in particolare per l’analisi del Codice Leicester, fu l’edizione curata da Gerolamo Calvi nel 1909(25), seguita dallo studio cronologico dei codici vinciani pubblicato nel 1925(26). In base a questi e agli ulteriori approfondimenti di Carlo Pedretti possiamo fare le seguenti considerazioni:

 A) Dall’analisi di calligrafia, inchiostri, filigrane delle carte e altri indizi come riferimenti a fatti storici (ad esempio il terremoto a Bologna nel 1505) è stato possibile individuare il periodo di redazione del Codice Leicester. Calvi sostiene “la tesi ch’esso non si dovesse credere cominciato prima del 1503, ma si potesse ritenere scritto tra il 1504 e il 1506.(27)” Nella sua edizione del Codice, Carlo Pedretti sposta più avanti l’inizio al 1506 a Firenze e la conclusione della compilazione intorno al 1508 a Milano e rileva che la filigrana dell’aquila che caratterizza le due carte 1 e 4 che citano il Monboso è molto simile a quella che si trova su studi preparatori per la Battaglia d’Anghiari, come nel disegno 12326 conservato a Windsor(28). Leonardo fu impegnato in quella sfortunata commissione dal 1504 alla sua partenza per Milano.

B) Incrociamo queste deduzioni con alcuni documentati aspetti biografici(29). Leonardo risiedette a Milano presso la corte ducale dal 1482 fino alla fine del 1499 quando, sconfitto Ludovico il Moro, il ducato cadde in mano francese. Dopo una breve permanenza nel Veneto, dall’aprile del 1500 ritornò a Firenze. Negli anni successivi compì numerosi spostamenti tra Romagna e centro Italia ma la sua residenza rimase Firenze, dove il suo impegno principale con la Signoria fu la realizzazione del grande dipinto con soggetto la Battaglia d’Anghiari. Dalla metà del 1506 ritornò a Milano richiamato dai pressanti inviti del governatore Charles d’Amboise. Il permesso accordato dalla Signoria era solo per tre mesi, ma fu di volta in volta prolungato fino alla primavera del 1507, quando Leonardo tornò brevemente a Firenze, ma presto fu di nuovo a Milano per volere del re di Francia Luigi XII che, giuntovi il 24 maggio, desiderava incontrarlo. Qui si trattenne fino a settembre, ma con una significativa assenza attorno a luglio per poter curare a Firenze la causa legale contro i fratelli. Soltanto dal settembre 1508 fu stabilmente a Milano, dove rimase fino al 24 settembre 1513, quando partì per Roma e mai più fu a Milano se non con brevi visite.

C) Il carattere del Codice Leicester è quello di un’opera di compilazione effettuata ordinando ed elaborando appunti e annotazioni precedentemente scritti in taccuini di formato tascabile, al fine di tendere ad una esposizione più organica e meglio fruibile della gran massa di appunti e osservazioni su svariatissimi argomenti ivi registrati. Purtroppo i taccuini associabili al Codice Leicester sono ora per la gran parte perduti. Questa modalità operativa di trascrizione è esplicitamente dichiarata da Leonardo stesso(30), per altro deducibile dalla relativa omogeneità degli argomenti trattati e dalla particolare cura nel trascriverli. Quindi è presumibile che le vicende ivi descritte abbiano preceduto di qualche tempo, anche di alcuni anni, la redazione del codice.

D) Poiché Leonardo indica in “di mezzo luglio” il periodo del suo viaggio al Monboso, la sua presenza nel ducato di Milano in quel mese è ovviamente certa fino al 1499, poi nell’estate del 1506 e infine dal 1509 al 1513. Dalle considerazioni fatte sulle vicende biografiche, sulla datazione del codice, sul suo carattere, sul fatto che il viaggio al Monboso è ivi descritto da Leonardo come avvenuto in un passato remoto, è evidente l’impossibilità che possa averlo effettuato nel 1511 ed anche dal 1509, poiché il codice Leicester era ormai già stato redatto. Escluderei il 1506 sia per la ragione C), sia per il fatto che la sua permanenza a Milano in quei mesi, permessa con difficoltà dalla Signoria, doveva essere limitata e strettamente legata agli impegni assunti col governatore d’Amboise. Ritengo quindi che l’unico periodo plausibile nel quale Leonardo abbia potuto compiere il viaggio al Monboso si possa collocare solamente durante il primo soggiorno milanese, quindi preferibilmente nell’ultimo decennio del XV secolo; allora sì nel pieno della sua vigoria fisica e in tempi assai meno travagliati di quelli dell’occupazione francese. In quel periodo si svolsero anche quelle “gite (…) da fare nel mese di magio(31)” che lo portarono a visitare le Prealpi e le Alpi Lombarde. Uzielli non esplicita la ragione per la quale ha ipotizzato il 1511. I commentatori più recenti invece associano il 1511 all’andata al Monboso perché all’incirca a quell’anno sono attribuibili i disegni della cosiddetta “Serie Rossa” che ritraggono paesaggi montani, disegni che non erano ancora stati divulgati e studiati al tempo di Uzielli. Chiariamo questa attribuzione cronologica. Gli anni del secondo periodo di residenza a Milano di Leonardo furono particolarmente turbolenti e i francesi occupanti si trovarono ad affrontare varie offensive volte a cacciarli dal ducato e a reinsediare gli Sforza. In particolare nel 1511 su iniziativa di Giulio II si formò la Lega Santa, alla quale aderirono gli Svizzeri. Questi, capitanati dal cardinale di Sion Matthäus Schiner, calarono in Lombardia a fine novembre e a metà dicembre posero Milano sotto assedio. In questa occasione Leonardo disegnò gli incendi degli abitati prossimi a Milano appiccati dalle soldataglie svizzere apponendovi anche l’ora e il giorno dei fatti osservati(32). Per questo utilizzò uno di quei fogli che, per analogo tipo di carta e di preparazione, si ritengono coevi e costituiscono la “Serie Rossa”, così permettendo una datazione anche agli altri disegni di paesaggi montani, in particolare quelli conservati a Windsor e catalogati 12410, 12414, 12411-12413.
Tra i vari sostenitori della datazione del viaggio di Leonardo nel 1511, spesso autori di scritti d’occasione, privi di riscontro documentale(33), merita invece attenzione Virgilio Ricci, autore di un comunque interessante volume(34). Egli afferma (a p. 21) che ”È infatti concorde assunto che Leonardo, quasi sessantenne (quindi nel 1511 ndr) ma tuttavia prestante (!?! ndr) ….affrontasse la più ardua delle sue esperienze alpine…”, ma (a p. 32) rendendosi conto che se “è da attribuirsi agli anni 1504-1506 la composizione del Codice Leicester” allora ne deduce che Leonardo sul Monboso c’è andato due volte!! Una prima del 1499 e un’altra nel suo secondo periodo di soggiorno a Milano, “forse nel luglio 1511 se esatta è la attribuzione al ricordato anno dei disegni 12410 e 12414 della Biblioteca Reale di Windsor rappresentanti studi di catene di montagne”. Qui Ricci a conferma di questa ipotesi riporta il giudizio del pur autorevole Kenneth Clark, che giudica quei disegni eseguiti “during Leonardo’s expedition to the mountains dividing France and Italy, and to Monte Rosa wich he calls Monboso”(35). Quindi l’ipotesi che Leonardo sia stato al Monboso nel 1511 è stata strettamente legata alla constatazione che i soggetti dei disegni della Serie Rossa si riferissero al Monte Rosa. In caso contrario la congettura di un ulteriore viaggio nel 1511 sarebbe del tutto priva di qualsiasi fondamento. Infatti così è: i soggetti di quei disegni a sanguigna non hanno nulla a che vedere col Monte Rosa, ma sono chiaramente e senza incertezze riferibili esclusivamente alle Prealpi Lecchesi e sono stati eseguiti da Leonardo osservandole da Milano (il 12410) e dalle rive dell’Adda, alcuni km a Nord della villa Melzi di Vaprio, da lui lungamente frequentata (per il 12414). Questo è infatti il risultato di un esauriente studio effettuato sui due disegni sopra citati più quello costituito dalla coppia 12411-12413(36). È quindi con rammarico che constatiamo di non avere (finora?) una sua testimonianza grafica di un ambiente naturale così straordinario come quello che ha vissuto un giorno di piena estate dell’ultimo decennio del XV secolo sulle alte quote del versante meridionale del Monte Rosa. Pensando alla modestia e ingenuità descrittiva con le quali le prime immagini dei ghiacciai e dell’alta montagna ci sono state testimoniate nelle opere naturalistiche del XVIII secolo, Leonardo, ben consapevole dell’”anatomia” delle montagne, ci avrebbe sicuramente consegnato una visione ben più ricca di verità e di emozione, come già testimoniano quei disegni della Serie Rossa.

Note

(1) I testi classici sull’antica frequentazione delle Alpi sono: F. GRIBBLE, The Early Mountaineers, London 1899 e W. A. B. COOLIDGE, Josias Simler et les origines de l’Alpinisme jusqu’en 1600, Grenoble 1904. Più recenti studi sono quelli di P. JOUTARD, L’invenzione del Monte Bianco,Torino 1993, e E. PESCI, La montagna del cosmo. Per una estetica del paesaggio alpino, Torino 2000.
(2) Il codice, pervenuto rilegato come un volume di 72 pagine, è stato slegato ed ora è costituito da 18 carte sciolte (bifogli), come probabilmente era in origine
(3) C. PEDRETTI, The Codex Hammer of Leonardo da Vinci translated in English and annotated by C. Pedretti., Los Angeles, 1987.

(4) Singolare accostamento tra una straordinaria anticipazione della teoria della diffusione selettiva della radiazione luminosa e la concezione cosmologica classica che tra l’atmosfera e la Luna interpone la “sfera del fuoco”.
(5) Leonardo li indica alla Carta 10A, foglio 10r del codice come il Rodano, il Reno, il Danubio e il Po.

(6) Codice Foster III, 14r.
(7) Redatta dall’allievo Francesco Melzi (Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Vaticana), fu diffusa in varie copie manoscritte e dal 1651 in edizioni a stampa come Trattato di Pittura. È del 1817 quella basata sul Codice Urbinate. Edizione consultata: LEONARDO, Libro di Pittura, Pedretti-Vecce, Firenze 1995.

(8) H. HOLZHAUSER, Le grand glacier d’Aletsch, in “Les Alpes” Club Alpin Suisse, Bern 1988, p.164. Ad esempio GIOVANNI ANDREA PRATO nella sua Storia di Milano, Firenze 1842, p. 281, ricorda eccezionali e disastrose nevicate tra gennaio e metà febbraio 1511, proprio nel periodo da alcuni ipotizzato per un viaggio di Leonardo sul Monviso…
(9) P. AZARIO (1312-1367), De Bello Canepiciano, edito da L. A. Muratori, Milano 1771, p. 334. Individuato e citato in G. e L. ALIPRANDI, Le Grandi Alpi nella cartografia 1482-1885, Ivrea 2007, Vol II, p. 207, che riproduce le pagine del codice originale conservato alla Biblioteca Ambrosiana e dell’edizione a stampa. Testo di riferimento per la storia della cartografia delle Alpi Occidentali
(10) “ Il Monte Bosseno, che oltrepassa tutte le parti montuose della Lombardia, e dalla quale la neve e i ghiacci mai si ritirarono dall’origine del mondo”

(11) G. UZIELLI, Leonardo da Vinci e le Alpi, “Bollettino del Club Alpino Italiano per l’anno 1889”, vol.. XXIII, pagg. 80-156. A pag. 110 vi è il capitolo Storia etimologica del Monte Rosa.
(12) G. e L. ALIPRANDI, Le Grandi Alpi…, Vol II, pp. 205-6; J. GUEX, La Montagne et ses noms. Martigny 1976, p. 200.

(13) J. P. RICHTER, The Literary Works of Leonardo da Vinci, London 1883, vol I, p. 161, traduce con “age”, ma nel commento a p. 246 del vol. II lo interpreta come “estate (summer)”. In M. BARATTA Leonardo da Vinci ed i Problemi della Terra, Torino 1903, a p.70 è interpretato come “e(s)tà”. In E. MC CURDY The Notebooks of Leonardo da Vinci, New York 1955 a p. 400 è tradotto con “age”. C. PEDRETTI in The Codex Hammer of Leonardo da Vinci…, a p. 30 traduce con “generation”.
(14) Così in C. PEDRETTI, The Codex Hammer of Leonardo da Vinci… a p. 30 “layers of heil”; e pure in E. MC CURDY The Notebooks of Leonardo da Vinci…p. 400 “layers”

(15) C. GALLO, In Valsesia, Torino 1884, a p. 297 segnala un graffito sulla cresta a monte del Col d’Olen, tra Valsesia e Valle del Lys oltre i 3000 m datato 1615.
(16) D. W. FRESHFIELD, The Alpine notes of Leonardo da Vinci, “Proceedings of the Royal Geogr. Society”, VI, London 1884
(17) LEONARDO Ms. G., f. 1.
(18) J. P. RICHTER, The Literary Works …. vol II, p. 246, errando però sul significato del toponimo Monte Rosa.
(19) G. UZIELLI, Leonardo da Vinci e le Alpi …

(20) W.A.B. COOLIDGE, Josias Simler … p. XXXVI.
(21) P. JOUTARD, L’invenzione del Monte Bianco…p. 34.

(22) G. UZIELLI, Leonardo da Vinci e le Alpi…
(23) W.A.B. COOLIDGE Josias Simler …, pp. 179* , 23** e p. XXXVI.
(24) F. GRIBBLE, The Early Mounaineers… p. 25.

(25) Il Codice di Leonardo…pubblicato….da G. CALVI, Milano 1909.
(26) G. CALVI, I Manoscritti di Leonardo da Vinci dal punto di vista cronologico, storico, biografico, Bologna 1925. Nuova edizione a cura di A. MARINONI, Busto Arsizio 1982.
(27) G. CALVI, I manoscritti di Leonardo da Vinci, Busto Arsizio 1982, p. 151.
(28) C. PEDRETTI, The Codex Hammer…., p.181.
(29) L. BELTRAMI, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci, Milano 1909, pp. 108-125. C. PEDRETTI, Leonardo & io, Milano 2008, p. 335-6.

(30) Codice Altantico, f. 214 r-d. Annotazione risalibile al 1507-1508.

(31) Codice Atlantico, f. 214 r-e. Vedi C. PEDRETTI, Leonardo e la lettura del territorio, in A.A.V.V., Lombardia. Il Territorio l’ambiente il paesaggio, Vol I, Milano, 1981, p. 238.

(32) RL 12416 nelle collezioni di Windsor
(33) Ad esempio L. ZANZI, Leonardo “alpinista” e la “visione” del Monte Rosa, in A. A. V. V., Monte Rosa la montagna dei Walser, Anzola d’Ossola 1994, pp. 301-32, con deduzioni errate e fantasiose ancora ribadite in: L. ZANZI, Il Monte Rosa di Leonardo: un’avventura tra visione, esplorazione e ricerca, in A. A.V. V., Il grande Monte Rosa e le sue Genti, Anzola d’Ossola 2010, pp. 32-33.

(34) V. RICCI, L’andata di Leonardo da Vinci al Monboso oggi Monte Rosa e la teoria dell’azzurro del cielo, Roma 1977.

(35) K. CLARK, The Drawings of Leonardo da Vinci in the Collection of Her Majesty The Queen at Windsor Castle, London 1968, Vol I, p. 62.
(36) A. RECALCATI, Le Prealpi Lombarde ritratte da Leonardo, “Achademia Leonardi Vinci, Journal of Leonardo Studies & Bibliography of Vinciana”,Vol X, 1997, pp. 125-133, 8 pp. di tav. f. t.

Testo di Angelo Recalcati  pubblicato in Raccolta Vinciana, vol XXXV, 2013, pp. 47-62

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