L’indagine storica anche se è condotta con metodo, onestà e consapevolezza critica quasi sempre non la si può pretendere conclusiva, ma piuttosto procede come in una marcia di avvicinamento verso quella che potrebbe essere definita una verità storica. Una marcia che può diventare difficile perché interrotta da ostacoli e deviazioni. Il lungo tempo trascorso dai fatti è uno di questi ostacoli ai quali si può aggiungere, nel nostro caso, la superficialità e il partito preso di presunti “saggi”, delle loro tesi “conclusive” e delle condanne senza appello contenute in “K2 Una storia finita” edito da Priuli e Verlucca nel 2008 e patrocinato dal CAI.
La storia delle vicende del K2 è un esempio della difficoltà a giungere a una corretta narrazione basata esclusivamente sui fatti documentati, Ritengo perciò che sia un contributo positivo l’analisi compiuta da Francesco Saladini e che sia meritevole di essere più conosciuta. Pubblicata in un suo libro nel 2022, viene qui riproposta col permesso dell’Autore. (A. R.)
Testo scaricabile al seguente link:
FRANCESCO SALADINI
K2, VITTORIA PULITA
(ENGLISH TRANSLATION BELOW)
Condividendo le accuse di Walter Bonatti e il parere dei cosiddetti Tre Saggi, nel 2004 il Club alpino ha decretato che il solo Ottomila italiano era stato salito cinquant’anni prima da due mascalzoni.
Un’altra verità è però possibile e anzi provata da questo documento, una verità che nulla toglie all’impegno di Bonatti sul terreno ma restituisce dignità ai due della cima, all’intera spedizione Desio e al nostro alpinismo.
Compendio
1. Sono fondate le accuse di Bonatti a Compagnoni d’avere spostato l’ultimo campo della spedizione al K2 in un luogo diverso da quello concordato per non farsi raggiungere, questa condivisa poi da Lacedelli, d’averlo abbandonato scientemente al bivacco all’addiaccio e d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno?
No. Per nessuna di queste accuse è stata fornita da chi doveva darla una anche minima prova oggettiva, tutte sono solo illazioni arbitrarie e sospetti basati su indizi incerti e contraddetti dai fatti e dalle situazioni reali.
2. Quelle accuse furono contestate a Compagnoni, o esposte ad altri, nell’immediatezza dei fatti cui si riferiscono?
No. Non ci furono contestazioni o contrasti tra gli scalatori della spedizione, né subito dopo la cima né lungo la discesa dello Sperone, né lasciando la montagna né durante il viaggio di ritorno e neppure per molti anni dopo il rientro.
3. Perché dunque Bonatti solo dopo il 1960 e Lacedelli mezzo secolo più tardi avrebbero lanciato quelle accuse?
La sola plausibile spiegazione del ‘pentimento’ fuori tempo massimo di Lacedelli sembra l’intento di separare la propria sorte da quella ormai decisa per Compagnoni, mentre per Bonatti le diverse possibili ipotesi, come ad esempio l’esigenza di scaricare su altri la responsabilità per i congelamenti di Mahdi o dopo il 1964 il risentimento per l’insinuazione di Giglio attribuita a Compagnoni, avrebbero dovuto richiamare l’attenzione dei Tre Saggi, se la loro ricerca della ‘verità storica’ non fosse stata a senso unico. Oggi di certo c’è solo che quei sospetti non nacquero nel 1954 e sul K2 ma a tavolino e anni o decenni dopo, ciò che dovrebbe bastare a svelarne l’inconsistenza.
4. E’ vero, in particolare, che Compagnoni violò il piano per l’assalto finale salendo troppo in alto?
No. Nel concordare quel piano i quattro dell’ottavo campo e cioè Compagnoni, Gallotti, Lacedelli e Bonatti, non si intesero sul ‘fin dove’ dovesse salire la cordata di punta: per Compagnoni ‘il più in alto possibile’, per Bonatti ‘il più sotto possibile’, per Lacedelli fino a un punto ‘stabilito’ che egli però non precisa e sul quale allora non chiese a Compagnoni di fermarsi, mentre Gallotti conferma alla lettera l’interpretazione di Compagnoni. Questi, indicato da Desio e confermato dai compagni come capo della cordata di punta, salì il giorno seguente fin dove poté perché così aveva capito (e con lui Gallotti) di dover fare.
5. Perché Compagnoni, arrivato con Lacedelli a 8100 metri, deviò andando a porre il nono campo fuori della linea di salita?
Non certo per nascondersi, visto che Bonatti e Gallotti, che Compagnoni al momento della deviazione non sapeva sostituto da Mahdi, erano alpinisti in grado di raggiungerlo ovunque, ma per non esporre il nono campo alle possibili slavine dal ‘collo di bottiglia’ intasato di neve e ai crolli del grande seracco più volte letali nelle ripetizioni.
6. Anche se mancano prove in merito, è però plausibile che Compagnoni e Lacedelli abbiano inventato la menzogna della fine dell’ossigeno prima dalla cima?
No. Non c’era alcun motivo per una bugia che non avrebbe aggiunto gloria alla conquista, perché non usare l’ossigeno era all’epoca considerato non un vanto ma un errore pericoloso peraltro proibito da Desio; ed è assurdo ipotizzare che nella proibitiva discesa notturna potessero accordarsi su di essa due persone tanto diverse per età, provenienza, esperienze e senso di responsabilità.
7. Compagnoni e Lacedelli potevano e quindi dovevano portare aiuto a Bonatti e Mahdi onde evitargli il bivacco all’addiaccio?
Non potevano finché c’era luce se non esponendosi al gelo della sera all’esterno della minuscola tendina del nono campo, né una volta sopraggiunto il buio per le difficoltà offerte dal tratto che li separava.
Ma neppure dovevano, perché Bonatti non chiese espressamente aiuto e non chiarì che Mahdi fosse fuori di sé, mentre non era pensabile che uno scalatore del suo calibro non riuscisse a far scendere anche a notte, ma con cielo perfettamente sereno, il più capace dei portatori assicurandolo con le usuali manovre di corda e sulle tracce di salita di quattro persone lungo un pendio a 40-45 gradi di 200 metri di neve fonda (che lo stesso portatore percorse poi da solo e senza problemi all’alba del mattino seguente).
8. Ammettendo però che dalla frase di Bonatti “è per Mahdi“, e comunque per l’ora ormai tarda, si dovesse capire che egli non riteneva di poter scendere col portatore, è responsabile anche Compagnoni per non essersi allertato?
No. Compagnoni restò dentro la tenda, probabilmente sentì Lacedelli urlare a Bonatti di lasciare l’ossigeno e scendere ma non l’ultima frase, e fu comunque rassicurato dal compagno una volta rientrato. La sua mente era di certo occupata dall’ansia per la salita del giorno dopo e non sembra lecito accusarlo dal divano di casa per non aver pensato che ci fossero problemi, non essere uscito per riprendere il dialogo con Bonatti e non essersi dedicato a un soccorso che avrebbe probabilmente comportato il fallimento della spedizione dopo due mesi d’impegno e la morte d’un compagno sullo sperone Abruzzi, con la cima a portata di mano.
9. Hanno dunque sbagliato i Tre Saggi?
La loro ‘indagine’ non considera la testimonianza di Gallotti sul punto fondamentale dello ‘spostamento’ del nono campo, né l’obiettiva pericolosità di pernottare sulla linea di caduta del gande seracco, né la concreta impossibilità per Compagnoni e Lacedelli di portare aiuto a Bonatti e Mahdi nelle condizioni estreme del momento, né l’estraneità di Compagnoni al dialogo tra Lacedelli e Bonatti, mentre per la supposta menzogna sulla fine dell’ossigeno non tiene conto delle pesantissime difficoltà all’inizio della salita, che in vetta c’erano sui basti due bombole e non tre e che mancava ogni motivo e la stessa possibilità oggettiva per la costruzione d’una menzogna come quella,
Ma prima ancora la loro ‘indagine’ è inattendibile perché non furono sentiti sui punti nodali della questione i protagonisti, tutti ancora in vita nel 2004, e per il rifiuto di ascoltare Compagnoni, seguendo in questo Bonatti che aveva più volte respinto le sue richieste di confronto.
I Tre Saggi decisero sotto la pressione dell’opinione pubblica sollecitata da Bonatti in centinaia di articoli, interviste, conferenze e libri contro Compagnoni e perché incaricati dal CAI d’accertare una verità diversa da quella di Desio, che poteva essere solo la verità di Bonatti. La sentenza era già scritta quando il CAI avviò l’iter che avrebbe portato al loro incarico.
10. Ma oggi non è tardi per occuparci di fatti tanto vecchi?
No, perché i decenni di polemica hanno partorito l’infamia per i due uomini della vetta e per la stessa impresa del 1954 e perché se questa conclusione è sbagliata si può ancora e allora si deve modificarla non solo per la loro memoria ma per ripulire l’immagine del Club alpino e dell’alpinismo italiano.
Preambolo
La vittoria della spedizione alpinistica italiana del 1954 sul K2 è stata offuscata dalle accuse – di violazione dei patti concordati e poi di menzogna sulla fine dell’ossigeno supplementare – che Walter Bonatti ha lanciato contro Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i due uomini della vetta, e ripetuto per decenni sino a ottenere nel 2004 dal Club alpino italiano la loro condanna come traditori e bugiardi.
Giustamente?
In realtà è ancora da scrivere, sulle vicende dell’assalto finale alla cima del K2, un racconto basato sull’esame analitico delle testimonianze dei protagonisti e non invece sui sospetti e sulle illazioni che hanno indotto Bonatti ad avviare e nutrire le sue accuse.
In particolare nessuno dei protagonisti delle dette vicende, come nessuno dei loro commentatori, ha mai provveduto a ricostruire, raccogliendo con rigore e completezza le voci dei primi quali risultano dai loro scritti, gli accordi presi al campo ottavo sulle modalità dell’ultimo assalto.
Si è giunti così a dare per assodate circostanze determinanti, come e soprattutto che gli scalatori presenti in quel campo la sera del 29 luglio avessero previsto di pernottare la notte successiva in un punto e a una quota precisi sulla parte alta della ‘spalla’ del K2, peraltro da lì non visibile, e in quattro dentro una tendina d’alta quota in grado però d’accoglierne al massimo due, senza accertare se una previsione del genere fosse plausibile al momento e da chi e quando e sulla base di quali dati e in quali termini operativi fosse stata presa.
Ciò ha portato ad apprezzare o condannare il comportamento dell’uno o dell’altro senza confrontarlo con la fonte dalla quale derivava, perché questa fonte non era stata indagata, o non con rigore e completezza.
Peraltro indagarla – e quindi valutare correttamente la congruità dei singoli comportamenti – è ancora possibile a partire dagli scritti lasciati dai protagonisti di quegli accordi.
E’ ciò che tento di fare nelle pagine che seguono fornendo anzitutto un elenco critico delle fonti consultate in ordine alle diverse e spesso contrastanti posizioni espresse dai protagonisti,
proponendo poi un mio acconto degli ultimi giorni della prima ascensione del K2 che riporta le posizioni ritenute corrette e i motivi della mia scelta nonché i momenti essenziali della polemica che ne è seguita
e tirando infine le somme nelle conclusioni.
In particolare il racconto è presentato con un carattere tipografico diverso (Arial) rispetto a quello altrimenti usato (Georgia), si snoda in capitoli numerati ciascuno dei quali si riferisce a un momento saliente delle vicende narrate ed è capitolo per capitolo, salvo si tratti di dati del tutto pacifici, seguito da un commento esplicativo nello stesso carattere ma in corsivo.
Sia nel racconto che nei commenti sono inseriti tra parentesi richiami ai testi elencati nel capitolo ‘Le fonti’ e alle pagine interessate o ad altri scritti e documenti.
Tali citazioni sono del tutto fedeli ed e possibile controllarle sui libri e le altre documentazioni ancora in commercio o facilmente reperibili.
Devo dire a questo punto che ho già provato a contestare la condanna del Club alpino pubblicando nel 2018 un volumetto dal titolo “K2 La storia continua”, ma quel breve saggio, che non ha avuto fortune di vendita e ha ottenuto solo due o tre recensioni, era inficiato da un esame ancora lacunoso degli scritti dei protagonisti – in particolare non conoscevo nella sua interezza il Diario di Pino Gallotti e avevo letto male la relazione di Compagnoni a Desio – per cui ho ritenuto necessario scusarmene, come faccio ora convintamente, e poi provare a rettificarlo come dalle pagine seguenti.
Torno peraltro sulle vicende del K2 soprattutto perché, rivedendo il caso nelle chiusure della pandemia, sono stato colpito dal tono d’assoluto disprezzo usato da Bonatti (in “K2 La verità” del 1996, 4^ edizione 2004, pagina 176) nel rifiutare l’incontro ripetutamente chiesto dal suo vecchio collega di spedizione all’evidente scopo di spiegare le rispettive ragion: “No. Anche se al Compagnoni non rimane più nulla da perdere, oggi il suo discredito non gli dà più diritto, per una ragione di decenza, a un confronto pubblico!”.
Questa disumanizzazione del ‘nemico’, che sulla base delle sue accuse è per Bonatti e poi per l’opinione pubblica appunto e soprattutto Compagnoni, m’è parsa fare il paio con l’incredibile disinvoltura dei citati ‘’Tre saggi’ nominati dal Club alpino nel condannare – senza sentire gli altri protagonisti dell’impresa, senza indagare circostanze tanto evidenti quanto determinanti come quelle più avanti riportate e soprattutto senza chiamarlo a difendersi – l’uomo che con la sua tenacia (non va dimenticato che Lacedelli al mattino del 31 luglio voleva scendere, pagina 60 del suo “K2, Il prezzo della conquista”) aveva dato all’Italia la vittoria sul K2.
Devo ancora precisare che l’argomento sul quale torno è quello delle decisioni e dei comportamenti dei componenti delle due squadre di punta nei giorni 29 e 30 luglio 1954, e non l’altro della durata dell’ossigeno nell’ascensione finale del 31, evidentemente proposto da Bonatti allo scopo di dipingere Compagnoni e Lacedelli come bugiardi che se avevano mentito su quel punto era da credere avessero falsato anche il resto.
Per questo aspetto richiamo quanto sostenuto nel mio “K2 La storia continua”, Lìbrati Editrice 2018, pagine da 53 a 78 e cioè, riassumendo molto sommariamente, che contro l’accusa di Bonatti stanno sia i dati della salita del 31 luglio di molto, come si vedrà, più impegnativa nella prima parte che in quella finale,
sia la mancanza d’ogni plausibile ragione perché Compagnoni e Lacedelli, seri e conosciuti professionisti della montagna ma persone del tutto diverse per carattere e spirito rispettivamente gregario e ribelle, s’accordassero su una menzogna del genere, dalla quale non avrebbero avuto maggior gloria, prima d’aver vinto la cima o nelle ore d’estremo pericolo e stress della discesa notturna,
sia le concordanti circostanze che le bombole dell’epoca, comprese le tedesche Drager, perdevano ossigeno nell’uso ad alta quota e dunque non garantivano affatto l’erogazione per le ore ritenute da Bonatti nei suoi millimetrici calcoli a tavolino,
che altri scalatori himalayani hanno continuato a portare in spalla bombole vuote per la difficoltà o il fastidio di scaricarsene,
che Compagnoni e Lacedelli avevano un valido motivo per portarle in cima, lasciarvele a provare la loro vittoria nel caso probabile che fossero caduti durante una discesa che a qual punto sapevano sarebbe stata proibitiva,
infine che essi giunsero in vetta con sui basti due bombole vuote e non tre, per un peso totale inferiore a 13 chili e non di 19.
Non credo, malgrado il polverone che la questione ha sollevato, che vi sia motivo di trattarne ancora.
Le fonti
Il racconto che più avanti propongo si basa sugli scritti dei quattro protagonisti delle vicende del 29 e 30 luglio 1954 e cioè Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Pino Gallotti e Lino Lacedelli (non sul libro “Erich Abram, un alpinista bolzanino”, Comune di Bolzano 2004, perché Abram non aggiunge nulla al racconto dei compagni).
Si tratta dunque dei testi pubblicati e da me conosciuti come segue, qui identificati con una sigla per potere richiamarli sbrigativamente più avanti:
B1 : Walter Bonatti, “Le mie montagne”, Zanichelli editore 1962 (è questo l’anno indicato nel mio volume come quello del copyright, anche se il libro è dato da tutti per pubblicato nel 1961), edizione gennaio 1965;
B2 : Walter Bonatti, “K2 La verità – Storia di un caso”, Baldini-Castoldi-Dalai editori 1996, 4^ edizione 2004;
C1 : Achille Compagnoni, relazione al capo spedizione Desio pubblicata nel libro di quest’ultimo “La conquista del K2”, Garzanti editore 1954, edizione maggio 2004;
C2 : Achille Compagnoni, “Uomini sul K2”, Veronelli editore 1958, nel testo riportato in “K2, Conquista italiana tra storia e memoria”, Bolis Edizioni 2004 (i numeri di pagina sono quelli di quest’ultimo volume);
G : Pino Gallotti, “Spedizione italiana al K2 – 1954 – Diario alpinistico”, stampato nel 2010 da Paola Gallotti sulla piattaforma ‘ilmiolibro.it’ (e in parte riportato nel libro del CAI “Milano e le sue montagne”, 2002);
L : Giovanni Cenacchi e Lino Lacedelli, “Il prezzo della conquista”, Mondadori editore 2004, terza edizione.
Questi testi non sono però tutti ugualmente attendibili, dovendosi ovviamente dare maggior credito a quelli scritti durante la spedizione o subito dopo rispetto agli altri che molti anni dopo hanno innescato la polemica o sono stati redatti durante il suo infuriare.
Il più alto grado d’attendibilità va allora attribuito al Diario di Gallotti in quanto scritto da un protagonista imparziale durante la spedizione – giorno per giorno salvo che in singole occasioni (come per il 26 e il 30 giugno, il 1° e il 2 agosto) e per il periodo 19 – 31 luglio (annotato “a partire dal giorno 8 agosto al campo base”) – registrando comunque i fatti nell’immediatezza del loro svolgersi.
Possono ancora ritenersi attendibili sia la relazione di Compagnoni a Desio, firmata anche da Lacedelli e consegnata al capo spedizione già nell’autunno del 1954, sia “Uomini sul K2” scritto da Compagnoni nel 1958, data sino alla quale, ma anche oltre, non sono provate discordie tra gli scalatori della spedizione.
Pure attendibile va ritenuto il libro di Bonatti del 1961 “Le mie montagne”: il mio racconto delle vicende di quei giorni è in effetti basato soprattutto su di esso.
Meno, invece, “K2 La verità” del 1996, riedizione di “Processo al K2” del 1985 – nel quale Bonatti esplicita l’accusa a Compagnoni e Lacedelli d’aver spostato il nono campo per non essere sostituiti da lui nel balzo finale e aggiunge quella d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno supplementare – perché scritto decenni dopo i fatti e nel pieno dello scontro.
L’attendibilità è infine minima per il libro “K2, Il prezzo della conquista” di Cenacchi e Lacedelli perché
– è stato pubblicato nel 2004 dopo ben cinquant’anni di silenzio (o al minimo quaranta se si considera l’intervista rilasciata nel 1994 a Roberto Mantovani per la ‘Rivista della montagna’, che peraltro non sono riuscito a leggere nella sua interezza), quando l’opinione pubblica alpinistica e non s’era ormai schierata decisamente dalla parte di Bonatti e poco dopo la condanna, datata 3 maggio 2o04, da parte dei ‘Tre saggi’ incaricati dal Club Alpino;
– Lacedelli non aveva mai sino allora accusato Compagnoni d’aver tradito i patti concordati con Bonatti, né scrivendone per sé o parlandone con amici né dando proprio con Compagnoni un’intervista a Dino Buzzati per il “Corriere della sera” (L, 27) nel novembre 1954;
– non sono credibili le decine di dialoghi virgolettati avallanti l’accusa di Bonatti a Compagnoni d’aver tradito il piano del 29 perché se Lacedelli com’è plausibile non avesse tenuto un diario durante la spedizione non avrebbe potuto ricordare dopo mezzo secolo parole e frasi con tanta esattezza mentre se l’avesse tenuto come egli sembra affermare (L, 76) l’avrebbe di certo, per essere creduto, mostrato a Cenacchi il quale invece non ne fa cenno;
– il testo si contraddice indicando come luogo ‘stabilito’ il 29 per il nono campo, e si vedrà in appresso, punti diversi e ben distanti tra loro e facendo dire a Lacedelli (L, 58) che “se fossimo stati in quattro sarebbe stato ancora meglio” e che “per me andava bene che venissero su Bonatti o anche l’hunza” (L, 60), salvo fargli ammettere in contrario (L, 59) che in quattro non si sarebbe potuto bivaccare nella ‘Super K2’ e (L, 61) che anche per ripararcisi alla meglio in tre si sarebbe dovuto tagliarla;
– stranamente Cenacchi non pone domande sul punto – invece determinante per capire perché Compagnoni non pose il nono campo sotto il ‘collo di bottiglia’ – se anche Lacedelli avesse allora ritenuto troppo pericoloso passare la notte sulla linea di caduta del sovrastante seracco;
– né sul perché Lacedelli, se davvero riteneva che si fosse deciso di porre il nono campo in un punto ‘stabilito’, non chiese il 30 a Compagnoni di fermarcisi, se quel punto era sulla loro linea di salita, o di recarcisi se non lo era.
L’ansia di sottrarsi al giudizio negativo già formato su lui e Compagnoni nell’opinione pubblica e nel Club alpino indusse evidentemente Lacedelli a strafare, e sono appunto le sue esagerazioni a scoprirlo inattendibile.
Il racconto
Il piano del 29 luglio per l’assalto finale
1. Negli ultimi giorni di luglio del 1954 la spedizione italiana organizzata dal Club alpino e guidata dal professor Ardito Desio sta per sferrare, dopo due mesi d’assedio lungo lo sperone Abruzzi, l’assalto finale agli 8611 metri dell’ancora inviolato K2.
Sono stati già saliti tre ‘ottomila’ – l’Annapurna conquistato dai francesi nel 1950 e poi l’Everest e il Nanga Parbat raggiunti nel 1953 rispettivamente da una spedizione britannica e da una austriaca – ma una vittoria sul K2, la seconda montagna della Terra per altezza, più difficile delle altre e tentata invano nel 1938, nel 1939 e nel 1953 da forti spedizioni statunitensi, restituirebbe credibilità e fiducia all’Italia che nove anni prima è uscita distrutta dalla guerra.
2. Nel pomeriggio-sera del 29 luglio 1954, in una delle due tende dell’ottavo campo a 7630 metri sulla ‘spalla’ del K2, quattro uomini di punta della spedizione – Achille Compagnoni di 39 anni guida alpina a Cervinia, Pino Gallotti di 36 accademico di Milano, Lino Lacedelli di 28 guida a Cortina e Walter Bonatti di 24, accademico e guida nello stesso 1954 a Courmayeur – discutono il piano per l’assalto finale.
Compagnoni è stato designato da Desio per tale assalto insieme con la guida pure di Courmayeur Ubaldo Rey che ha però dovuto rinunciare per sfinimento, Gallotti è un ingegnere chimico ottimo occidentalista, Lacedelli e più ancora Bonatti sono tra i migliori scalatori italiani del momento.
Al settimo campo, pronti a raggiungerli, ci sono Eric Abram di 32 anni, guida alpina a Bolzano, e i due migliori portatori, pakistani di etnia Hunza come tutti gli altri, Isakhan e Amir Madi.
Nei campi impiantati lungo lo sperone Abruzzi, oltre ai portatori, attendono di conoscere l’esito dell’ultimo assalto gli altri componenti della spedizione e cioè, oltre al già citato Rey, Ugo Angelino accademico di Biella, Cirillo Floreanini accademico friulano, Gino Soldà guida alpina di Recoaro Terme, il più anziano degli scalatori coi suoi 47 anni, e Sergio Viotto guida a Courmayeur, mentre al campo base attendono con loro il capo spedizione Ardito Desio, il medico Mario Pagani e il foto e cine-operatore Mario Fantin.
Non c’è più Mario Puchoz, guida a Courmayeur, vinto a 36 anni il 21 giugno da un edema polmonare lungo lo Sperone: il suo corpo giace in una tomba di sassi ai piedi della montagna.
3. Sopra le due tende dell’ottavo campo incombono un muro di ghiaccio alto trenta metri, poi un dosso di neve che costituisce la parte alta della ‘spalla’, un ripido canalone più tardi noto come ‘collo di bottiglia’ sotto un colossale seracco alto 120 metri (Ed Viesturs, “K2, La montagna più pericolosa della terra”, Corbaccio 2010, pagina 20) e, verso sinistra, un’impegnativa traversata che apre la via ai sempre meno ripidi pendii sommitali.
4. Il muro di ghiaccio sovrastante l’ottavo campo impedisce la visuale della montagna sino ai detti pendii sommitali (B1, 72 e B2, 62), ma Compagnoni e Lacedelli hanno potuto osservarla al mattino del 29 luglio, quando hanno superato il muro lasciando sopra di esso i carichi col necessario per porre il nono campo (C2, 144).
5. Il 29 sera i quattro concordano che il giorno seguente, 30 luglio, Compagnoni, già designato al ruolo di punta dal capo spedizione Desio, salirà con Lacedelli a porre il detto ultimo campo mentre Gallotti e Bonatti, che si offre per ciò spontaneamente (L, 62), scenderanno sopra il settimo a prendere due basti con l’ossigeno supplementare necessario ai compagni per l’ultimo balzo, e li porteranno sino a loro.
Le circostanze sono pacifiche per Compagnoni, Lacedelli e Bonatti, mentre Gallotti (G, 104) sembra riportare al mattino del 30 il ‘delinearsi’ del piano.
Non è plausibile però che il programma dell’assalto finale non fosse stato discusso nel pomeriggio-sera del 29, visto che nel primo mattino seguente si doveva passare all’azione e i quattro scalatori sarebbero partiti in direzioni e in ore diverse – in salita Compagnoni e Lacedelli alle 5,30 (C2, 145) e in discesa Bonatti e Gallotti alle 8 (B1, 71) – onde si deve supporre che Gallotti intendesse riferire quel “delinearsi” alla sera precedente.
6. La conversazione del 29 sera tra i quattro scalatori termina lasciandoli diversamente convinti circa i particolari del compito della cordata di punta.
Compagnoni ritiene si sia deciso che egli e Lacedelli debbano il 30 luglio “avvicinarsi al massimo alla vetta rimandando al 31 il balzo finale” (C2, 145) e ricorda (C1, 183) che in effetti il 30 luglio “noi due salimmo a piantare il cosiddetto 9° campo: in realtà una leggerissima tendina … Si cercò di portarci il più in alto possibile, fin sotto la fascia di rocce che taglia l’ultimo tratto della parete est”, precisando subito dopo che lui e Lacedelli s’illudevano addirittura, salendo al mattino del 30, d’arrivare a porre il nono e ultimo campo sopra il ‘collo di bottiglia’ (ivi).
Anche Gallotti è convinto che il piano del 29 preveda per la cordata Compagnoni / Lacedelli il compito di salire “a piazzare il 9° campo, cioè la tendina leggerissima Super K2, il più in alto possibile” (G, 104)
e non smentisce la sua convinzione di allora quando nel 2002 Bonatti gli chiede di farlo (B2, 241-246).
Bonatti pensa al contrario che il 29 si sia deciso che la cordata di punta debba porre l’ultimo campo non nel luogo prestabilito e quindi sotto e a sinistra della grande fascia di rocce rosse (Desio aveva peraltro genericamente previsto “un 9° campo a circa 8000-8100 metri”, si veda il suo “La conquista del K2”, Garzanti 1954 nella ristampa del 2004, pagina 142), ma invece “il più sotto possibile”, circa un centinaio di metri più in basso, per consentire a lui e Gallotti di realizzare la “massacrante missione” del trasporto delle bombole (B1, 70-71).
Infine Lacedelli, che uscito dal colloquio del 29 convinto si sia “stabilito” un punto preciso per il nono campo, lo colloca però volta a volta “di fianco al ‘collo di bottiglia’, dove c’era una gobba” (L, 57) e quindi a 8050-8100 metri, oppure “a quota 7950” (L, 61), oppure nel punto del traverso a sinistra deciso da Compagnoni (L, 57) e quindi di nuovo intorno agli 8100 metri.
7. Questa divergenza di convinzioni tra Compagnoni e Gallotti da una parte, Bonatti da un’altra e Lacedelli da un’altra ancora è evidentemente frutto d’un malinteso presumibilmente indotto dalla quota e dalla stanchezza, di certo favorito dalla citata circostanza che la zona del ‘collo di bottiglia’ non sia visibile dal campo ottavo a causa del muro di ghiaccio che lo sovrasta, ma forse principalmente causato dalle differenti prospettive delle due cordate di punta e di sostegno.
Se ci si dovesse basare sulla prevalenza numerica si dovrebbe preferire la versione di Compagnoni (che il 29 sera si fosse deciso di porre il nono campo “il più in alto possibile” e dunque non in un punto prestabilito), in quanto fornita dell’avallo letterale di Gallotti che scrive subito dopo i fatti, rispetto a quella di Bonatti (che si fosse deciso invece di porlo “il più sotto possibile” e in un punto già bene individuato anche se non visibile dal campo ottavo), formulata invece molti anni dopo al momento d’inizio della polemica e priva di conferma perché non si può considerare tale quella di Lacedelli, contraddittoria e giunta dopo mezzo secolo o quasi di silenzio.
Ma esiste un’altra spiegazione alla divergenza delle versioni, plausibile oltre che rispettosa della parola dei singoli protagonisti, ed è che tra i quattro ideatori del piano del 29 luglio si sia creato un malinteso – altri hanno già parlato di ‘equivoco’ – che li ha portati in perfetta buona fede a interpretarlo sul terreno in termini tra loro incompatibili e a sostenere poi tenacemente per decenni quelle diverse interpretazioni,
un malinteso derivante appunto, come riportato sopra, dalla stanchezza, dalla quota, dall’ansia per l’azione imminente e dallo scarso interesse ai particolari perché sovrastato da quello di giungere alla vittoria, dall’’impossibilità di vedere, mentre si discuteva, il campo delle operazioni, e ancora, e forse soprattutto, dalla differenza dei compiti che ciascuna delle due cordate del giorno appresso s’apprestava ad adempiere.
In effetti porre il nono campo ”il più in alto possibile” avrebbe comportato non solo una maggior fatica per chi s’era impegnato al trasporto delle bombole ma anche il rischio che non si riuscisse a farvele giungere, però facilitando, se vi si fosse riusciti, il compito della cordata incaricata, il giorno successivo, dell’ultimo balzo,
mentre portare l’ossigeno “il più sotto possibile” avrebbe ridotto la fatica degli incaricati del trasporto ma aggravato l’impegno della cordata di punta col rischio, poi, che l’ossigeno finisse molto prima della cima.
E’ in questo quadro dissonante, caratterizzato da esigenze e prospettive non solo diverse ma contrastanti, che ciascuno dei due protagonisti principali si presenterà nella polemica post-spedizione, come si vedrà, assolutamente convinto della propria versione,
Bonatti giungendo ad accusare Compagnoni d’avere ‘spostato’ il luogo del nono campo più in alto del previsto per nascondersi nel timore di dovergli cedere il posto nella cordata di punta, ciò che costrinse lui e Mahdi al potenzialmente mortale bivacco all’addiaccio, e ripetendo l’accusa sino a convincerne nel 2004 il Club alpino,
e Compagnoni sostenendo sino alla morte con uguale fermezza d’avere agito secondo gli accordi presi il 29 luglio col salire a porre il nono campo a 8100 metri e precisando d’essersi dovuto spostare a sinistra per porlo al riparo da possibili crolli del grande seracco.
Ritenere in buona fede solo l’uno o l’altro di quei protagonisti si può soltanto se si ragiona per partito preso: un esame sereno dei contrastanti comportamenti e ricordi degli ideatori del ‘piano’ del 29 luglio1954 non può che portare al riconoscimento d’un reciproco malinteso sulla collocazione del nono campo.
La tenda Moretti ‘Super K2’
8. Al mattino del 30 luglio, come concordato la sera prima, Compagnoni e Lacedelli risalgono il muro di ghiaccio che sovrasta l’ottavo campo e, ripresi i carichi lasciati sopra di esso, proseguono sulla parte alta della ‘spalla’ verso la fascia di roccia che regge la cima del K2.
Hanno con sé, oltre all’attrezzatura da scalata, la tendina Moretti ‘Super K2’ da 2,7 chili, sacchi-letto di piumino, fornelletto e viveri (C2, 145).
Nella stessa mattina, partendo dal campo ottavo intorno alle 8, Bonatti e Gallotti scendono per circa duecento metri sotto di esso sino ai basti con le bombole (B1, 71) e lì incontrano Erich Abram e i portatori Isakhan e Mahdi che salgono dal settimo campo portando tra l’altro sacchi-letto di piumino anche per loro (B1, 72).
Caricati i due basti, pesanti 19 chili ciascuno, Bonatti e Gallotti risalgono con quei compagni sulle corte impronte che hanno avuto cura di lasciare in discesa (B1, 72), giungendo all’ottavo campo alle 12 circa (G, 105).
Consumato un sommario pasto coi portatori, i tre italiani concordano che Bonatti e Mahdi, accompagnati da Abram, porteranno le bombole d’ossigeno alla cordata di punta, mentre Gallotti e Isakhan, troppo provati, resteranno al campo (G, 105).
Il programma prevede in particolare che Abram rientri comunque in serata mentre Bonatti e Mahdi, ove “non facciano in tempo a rientrare anch’essi a questa base, dovranno sistemarsi di fortuna e pernottare rannicchiati come possibile nella tendina assieme a Lino ed Achille” (G, 105).
Qui c’è di nuovo contrasto tra racconti diversi.
Infatti mentre Compagnoni ricorda che il 29 sera si decise di passare tutti insieme al nono campo la notte successiva, ma senza precisare come,
Bonatti nel libro del 1961 riporta che l’accordo del 29 prevedeva il pernottamento a quattro nella sola ‘Super K2’ portata su dai compagni: “Se questo piano riuscirà, domani notte saremo lassù nella minuscola tendina del 9° campo tutti e quattro rannicchiati così come siamo ora” attendendo insieme l’alba (B1, 71); e aggiunge poi (B2, 75) che si sarebbe trattato d’una sistemazione non comoda che era però quella prevista negli accordi del 29 luglio
e Gallotti, al contrario e come s’è visto, afferma che il pernottamento dei componenti delle due cordate in una sola tendina fu previsto il 30 da lui, Abram e Bonatti, e solo come eventuale qualora i due delle bombole non fossero riusciti a tornare all’ottavo campo (G, 105).
Non c’è dubbio che tra la versione di Bonatti che il pernottamento a quattro in una sola ‘Super K2’ fosse stato deciso il 29 anche da Compagnoni e Lacedelli, e la versione di Gallotti che un pernottamento del genere fosse stato previsto il 30 senza di loro, e solo come ipotesi subordinata, sia da preferire la seconda che quindi, come sopra, riporto nel racconto.
E ciò per i motivi seguenti:
– Gallotti scrive, come già notato, nell’immediatezza dei fatti e non dopo anni né in un clima di sia pure iniziale polemica come invece Bonatti;
– del tutto ‘terzo’ rispetto all’impegno delle due cordate attive il 30 luglio, egli non aveva ragione alcuna per inventare di sana pianta l’accordo di quel giorno;
– Compagnoni e Lacedelli, pure scrivendo anch’essi che il 29 s’era deciso di passare tutti e quattro insieme la notte prima dell’assalto finale al nono campo, non scrivono in nessuna pagina dei loro ricordi che ciò sarebbe dovuto avvenire in una sola tendina;
– non è plausibile che essi, pacificamente designati a comporre la cordata di punta, avessero previsto il 29 di accogliere nella minuscola ‘Super K2’ due compagni che avrebbero sconvolto il riposo loro necessario prima del balzo finale;
– solo la versione di Gallotti spiega la riluttanza di Compagnoni, sottolineata da Lacedelli con l’intenzione d’accusarlo, ad accettare l’arrivo al nono campo di Bonatti e Mahdi evidentemente privi d’una seconda tenda o tendina nella quale ripararsi, che sarebbe stata ben visibile sopra uno dei loro basti;
– infine e soprattutto è solo quella versione che, in quanto prevede come ipotesi principale il rientro al campo ottavo in serata, rende in qualche modo comprensibile, anche se imprudente in quanto non tiene conto della subordinata, la partenza di Bonatti verso l’alto senza, come si vedrà poco appresso, né tenda né sacchi-letto né viveri.
Lino Lacedelli, in salita il 30 luglio 1954 sopra l’ottavo campo con la ‘Super K2’ sullo zaino
Chiarito ciò, ripeto quanto già scritto nel 2018 e cioè che un pernottamento di quattro persone in una sola ‘Super K2’, da chiunque e in qualsiasi momento fosse stato previsto, era del tutto irrealizzabile.
Reinhold Messner (nel libro “Walter Bonatti, il fratello che non sapevo di avere”, Mondadori 2013, pagina 170) scrive che sul K2 al campo IX non sarebbe stato possibile trascorrere la notte in quattro nella tendina in quanto troppo piccola.
Lacedelli (L 60, in nota) riporta che la Super K2’ del nono campo aveva le seguenti dimensioni: lunghezza 200 cm, larghezza davanti 120 cm, larghezza dietro 90 cm, altezza 75 cm, pari dunque a quella d’un tavolo da pranzo o da studio, e, in evidente riferimento all’apertura sul davanti mostrata nella foto a pagina 21, che entrare oppure uscire da quella tenda non era come aprire o chiudere una porta, ma richiedeva vere e proprie contorsioni (B2, 223),
precisando ancora che la tendina era tanto bassa da costringere lui e Compagnoni, infagottati nei pesanti indumenti d’altra quota, a passare la notte con le gambe fuori
e chiarendo come s’è visto che anche per ripararcisi alla meglio in tre si sarebbe dovuto tagliarla (L, 60-61).
Che quattro scalatori impegnati alle alte quote della montagna potessero non diciamo riposare ma anche solo entrare insieme nella Moretti ‘Super K2’ va in effetti escluso anche in considerazione dell’abbigliamento necessario a resistere ai quaranta sotto zero notturni: due paia di calzettoni, scarponi alti fin quasi al ginocchio a doppia tomaia con quella esterna di pelle di renna, mutandoni, pantaloni di flanella, sopra-pantaloni di piumino e altri di tela impermeabile, maglia di lana, camicia di flanella, maglione pesante, giaccone di piumino, giacca a vento impermeabile, guanti, guantoni imbottiti, berretto di pelle d’agnello, secondo l’elenco che ne fa Compagnoni (C1, 186), per non dire dei sacchi-letto pure di piumino dei quali s’erano dotati i due uomini della cordata designata per l’assalto finale.
Se dunque i componenti di tale cordata e di quella d’appoggio di Bonatti e Mahdi si fossero ritrovati insieme al nono campo, avrebbero dovuto per tutta la notte alternarsi due a due dentro la sola ‘Super K2’ ivi presente, mettendo con ciò gravemente a rischio non solo l’incolumità di tutti ma l’efficienza della cordata che il giorno seguente doveva condurre l’assalto decisivo alla sconosciuta vetta, più di mezzo chilometro di dislivello sopra di loro, d’una montagna che aveva richiesto sino allora all’intera spedizione due mesi di sforzi.
E’ d’altra parte errata l’affermazione formulata molto dopo la spedizione da Bonatti (B2, 75) che la sera del 30 luglio sarebbe stato possibile pernottare in quattro, anche se un po’ sacrificati, nella tendina del nono campo.
Non è esatta, infatti, la la circostanza, addotta a prova di tale affermazione dallo stesso Bonatti, che la tenda usata al campo ottavo la sera del 31 da lui, Abram e Gallotti insieme con Compagnoni e Lacedelli appena rientrati dalla cima, fosse solo “di poco più grande” della ‘Super K2’.
In realtà all’ottavo campo erano presenti due tende Moretti, la ‘Himalaya’’ da 12 chili e la ‘K2’ da 9 chili, ed è altamente presumibile che i cinque italiani abbiano dormito insieme nella più grande, visto che l’altra doveva ospitare solo i due portatori.
Ambo le tende erano comunque, come dalla seconda foto della pagina seguente, alte quasi quanto un uomo.
Il Museo della montagna di Torino, che custodisce una delle tende Moretti ‘Himalaya’ usate dalla spedizione del
La tenda Moretti ‘Super K2’: lunghezza due metri, altezza 75 centimetri, larghezza davanti 120 e dietro 90 centimetri
Le due tende Moretti, ‘Himalaya’ e ‘K2’, dell’ottavo campo
1954, ha peraltro risolto la questione fornendone cortesemente le misure reali: 200 x 190 x 155.
La tenda che nella notte del 31 luglio ospitò i cinque scalatori italiani, mentre Isakhan e Mahdi occupavano l’altra, non era dunque grande solo “poco più” della ‘Super K2’ del nono campo come afferma Bonatti, ma circa il doppio.
L’errore sulla capienza della Moretti ‘Super K2’, da attribuire anche a Bonatti che vi insiste come sopra nei suoi libri, appare tanto più grave in quanto le tende, come tutti i materiali, erano state sperimentate prima della partenza della spedizione quanto meno nel primo “campeggio” sullo spigolo occidentale del Piccolo Cervino (La conquista del K2”, citato, pagina 78).
9. Mahdi viene convinto a salire con un carico di bombole verso il nono campo da Bonatti, Abram e Gallotti che gli prospettano la possibilità di giungere in vetta (B1, 74).
Il portatore viene equipaggiato con capi d’alta quota reperiti al momento ma tiene i suoi scarponi (B1, 74 e L, 61) perché non c’è un paio in più delle speciali calzature doppie in pelo di renna in dotazione a ciascun componente italiano della spedizione.
La cordata in partenza non prende con sé la seconda tendina ‘Super K2’ riservata come l’altra all’attacco alla vetta (Desio, “La conquista del K2, pagina 83) e che si dovrebbe anch’essa trovare all’ottavo campo (ivi) a cura di Lacedelli quale incaricato delle tende (L, 51), ma neppure i sacchi-letto di piumino di certo lì presenti e disponibili (B1, 72) né una anche minima scorta di viveri (B2, 263).
Bonatti, Abram e Mahdi lasciano dunque il campo ottavo alle 15,30 (B1, 75) – non “un paio d’ore” (B1, 83) ma tre ore e mezza dopo che vi sono giunti alle 12 (G, 105) – con solo, oltre ai basti, una corda, un paio di moschettoni e l’attrezzatura per le bombole (B1, 74), superano alle 16,30 (B1, 75) il bordo superiore del muro di ghiaccio e proseguono verso la fascia di rocce sulle piste tracciate al mattino da Compagnoni e Lacedelli.
Partendo dal campo ottavo senza sacchi-piumino e senza bevande Bonatti – anche se erroneamente convinto che egli stesso e Mahdi potessero entrare nella Super K2 di Compagnoni e Lacedelli e pernottarvi con loro – doveva sapere e certamente sapeva di non poter usare attrezzature e viveri portati su dai compagni e che però senza usarne avrebbe corso rischi inaccettabili.
Dunque il muoversi senza il minimo indispensabile a sopravvivere a quella quota e a quelle temperature – per un peso totale che non avrebbe aggravato di molto il carico suo e di Mahdi e che forse e magari in parte avrebbe potuto sopportare Abram – può corrispondere soltanto, come s’è accennato, a una sua conscia o inconscia certezza di rientrare prima di notte al campo che stava lasciando,
certezza che rende però incomprensibili i prolungati tentativi, che lo stesso Bonatti mise in opera di lì a poco, di raggiungere a tutti i costi la cordata di punta.
Il nono campo e il bivacco
10. Compagnoni e Lacedelli hanno intanto superato, sulla parte alta della ‘spalla’, la quota di 7950 metri, alla quale secondo Bonatti s’è concordato di porre il nono campo, senza che Lacedelli abbia chiesto di fermarsi lì o nell’altro punto secondo lui ‘stabilito’, perché Compagnoni è, come s’è visto, invece convinto di dover salire il più in alto possibile e si comporta coerentemente a questa convinzione (C2, 145).
I due hanno quindi proseguito fin quasi all’imbocco del ‘collo di bottiglia’, il canalone inclinato a 45 gradi (così Ed Viesturs a pagina 82 del suo citato “K2, La montagna più pericolosa della terra”), cioè sino a 8100 metri circa.
Qui è evidente l’esposizione ai possibili crolli dell’enorme seracco pensile e alle potenziali valanghe dal ‘collo di bottiglia’, intasato di neve fresca nella quale si affonda fino al petto (C2,145), onde Compagnoni decide di spostarsi a sinistra, sulla dorsale rocciosa fuori della loro linea di caduta.
Nel libro del 2004 Lacedelli ricorda d’avere protestato che traversare a sinistra sarebbe stato più pericoloso che fermarsi dove erano arrivati e d’aver seguito Compagnoni, slegandosi però dalla corda che li univa, solo perché questi insistette (C2, 145 e L, 57).
Non è facile credergli perché se avesse ritenuto così rischiosa la traversata non avrebbe dovuto slegarsi,
mentre appare senz’altro erronea la precisazione (L, 57) che l’episodio si svolse nel punto secondo lui ‘stabilito’ per il nono campo e cioè a quota 7950 metri.
Infatti le indicazioni di Bonatti (sulla foto riportata in basso nella pagina 79 del suo citato “Le mie montagne”), evidenziano che l’inizio della traversata, e quindi quella disputa se vi fu, si collocano pochi metri sotto il luogo del bivacco con Mahdi e dunque intorno agli 8100 metri.
In ogni caso la contestazione di Lacedelli riguardò soltanto la pericolosità del traverso e non l’obbligo d’attendere Bonatti in un punto ‘stabilito’ – nel suo libro egli, come s’è visto, non sostiene mai d’avere chiesto a Compagnoni di fermarsi o recarsi in quel punto – obbligo che dunque lo stesso Lacedelli non riteneva sussistente.
Cadono allora tutte le sue insinuazioni sulla violazione da parte di Compagnoni del piano del 29.
La cuspide del K2 da Est:
A (linea continua): percorso di Compagnoni e Lacedelli
B (linea tratteggiata): percorso di Bonatti e Mahdi
C : luogo, a circa 8100 metri, del bivacco di Bonatti e Mahdi
D : verso il luogo del nono campo sulla dorsale rocciosa
E : canalone ‘collo di bottiglia’, la ‘E’ è a circa 8200 metri
F : traversata a sinistra sotto il seracco
G : grande seracco
I percorsi e il luogo del bivacco di cui ai numeri A, B e C sono riportati come dallo schizzo sulla foto a pagina 79 del libro di Walter Bonatti “Le mie montagne”
Quanto al fatto che la pericolosità del seracco fosse un motivo evidente e sufficiente per lo spostamento verso la dorsale rocciosa, percorsa da Fritz Wiessner nel tentativo statunitense del 1939, Compagnoni scrive che piazzare il nono campo dove lui e Lacedelli erano giunti (cioè all’inizio del traverso a sinistra) comportava esporlo al rischio di crolli dalla montagna di ghiaccio che sporgeva minacciosa sopra il canalone (cioè sopra il ‘collo di bottiglia’) e che lui stesso e il suo compagno cercarono quindi un posto più sicuro nel quale passare la notte dirigendosi verso la cresta che vedevano a sinistra, fuori dalla linea di caduta del seracco, sperando, come poi avvenne, di poter piazzare lì’ la ‘Super k2’ (C2, 145).
Lacedelli conferma il rischio di crolli anche se, come s’è visto, non nel suo libro del 2004 ma in un’intervista a ‘Le Monde’ del 29.8.2001 (B2, 223): “Quando siamo arrivati al posto previsto dove fissare il campo 9°, ci è parso molto pericoloso perché esposto alla caduta di seracchi”, con ciò tra l’altro affermando contro se stesso (L, 61) che il posto ‘stabilito’ era a 8100 metri.
Ma anche Bonatti conferma, ricordando che nella notte e dal luogo del suo bivacco (coincidente con l’inizio del traverso di Compagnoni e Lacedelli) vedeva sopra di sé l’ombra d’una tremenda cascata di ghiaccio, una vera minaccia sospesa un cui anche minimo frammento avrebbe spazzato via in un soffio lui e Mahdi (B2, 41), ripetendo a pagina 43 del suo libro “I miei ricordi” del 2008, 2^ edizione, che quel luogo si trovava esattamente sulla traiettoria degli eventuali crolli del grande seracco.
L’estrema pericolosità di tutta quella zona, evidente nella foto della pagina precedente, è stata tragicamente confermata dai numerosi incidenti mortali causati appunto da crolli del seracco pensile nel corso delle ascensioni seguite alla ‘prima’ italiana del 1954.
Allora non porre lì il nono campo, una volta vista da vicino la situazione, era per Compagnoni, che comunque non riteneva d’essere tenuto a fermarvisi secondo il piano del 29, una scelta obbligata per salvaguardare l’incolumità sua e di Lacedelli e il successo dell’impresa.
Bonatti sostiene invece dal 1985 che Compagnoni voleva il 30 luglio nascondergli il nono campo, o comunque porlo fuori dalla sua portata, perché temeva d’essere da lui sostituito, il 31, nell’assalto finale.
Le sole ‘prove’ portate da Bonatti a sostegno di tale tesi sono lo sfinimento che egli notò in Compagnoni il 29 sera e la frase, non riportata o confermata dai tre altri presenti, che lo stesso Compagnoni gli avrebbe rivolto: “Se domani anche lassù al 9° campo sarai in forma, può darsi che tu prenda il posto di uno di noi due” (B1, 71).
La sera del 29 Compagnoni e Lacedelli erano in effetti duramente provati (G, 104) dall’aver superato il muro di ghiaccio, anzi Lacedelli ne era stravolto (L, 57), Bonatti poteva realmente essere il più in forma anche se fuori uso il mattino precedente (B1, 84) e può darsi che Compagnoni l’abbia davvero blandito ventilando un suo inserimento nella cordata di punta per deciderlo a incaricarsi del trasporto delle bombole come Bonatti fece poi con Mahdi illudendolo di poter giungere in cima (B1, 74), ma tutto ciò non prova affatto che Compagnoni abbia cercato di nascondersi il giorno successivo.
Egli infatti, se pure sfinito la sera del 29, come peraltro tutti dopo le fatiche del giorno, non lo era certo il 30, quando salì senza problemi 500 metri di dislivello su neve fonda e placche difficili col materiale per il nono campo, né realizzando il 31 un exploit presumibilmente più impegnativo del trasporto delle bombole su piste già fatte e comunque probante per un anche precedente stato di ottima forma,
mentre è del tutto illogico supporre che appunto il 30, quando era fisicamente a posto come sopra e con Bonatti da ritenere invece fuori gioco dopo la “massacrante missione” del trasporto delle bombole, abbia deciso di rendere più lungo e difficile il percorso verso la vetta, mettendo a rischio all’ultimo momento il successo della spedizione, solo per il timore di dover dare seguito alla vaga ipotesi della sera prima e non invece per motivi obiettivi tanto gravi quanto evidenti.
I fatti narrati dai protagonisti, al netto delle supposizioni di Bonatti, indicano che Compagnoni salì a 8100 metri perché riteneva di dover arrivare “il più in alto possibile” e che andò a porre il nono campo fuori della linea di salita per sottrarsi ai possibili crolli del grande seracco: di altre sue intenzioni non c’è alcuna prova anche solo logica.
11. Procedendo verso sinistra sul pendio di neve e ghiaccio e superando difficili placche (C2, 145), Compagnoni e Lacedelli giungono intorno alle 15 (C1, 183) sulla dorsale rocciosa, indicata da Desio quale via alternativa per la cima (“La conquista del K2” citato, pagina 144), a circa 100 metri in linea d’aria (B2, 75) dall’inizio del traverso, luogo del successivo bivacco di Bonatti e Mahdi.
Se non pongono il campo prima della dorsale è presumibilmente perché per basare la ‘Super K2’ sul pendio inclinato come sopra a 40/45 gradi dovrebbero movimentare circa un metro e mezzo cubo di neve e ghiaccio, impresa irrealizzabile quando (C2, 145) la deficienza d’ossigeno impedisce di dare più di due colpi di piccozza di séguito.
Sulla dorsale rocciosa i due trovano invece una piccola sella capace di ospitare la tendina, che montano con un lavoro lento ed estenuante (C2, 145).
Si tratta di un posto assai precario, non piano ma in leggera pendenza (L, 57), ma è il solo possibile per l’ultimo campo e, terminato di piantarla, Compagnoni e Lacedelli entrano nella ‘Super K2’per ripararsi dal freddo della sera.
12. Bonatti, Abram e Mahdi hanno intanto risalito il pendio della ‘spalla’ e, avendoli chiamati, hanno avuto da Compagnoni e Lacedelli l’indicazione di seguirne le piste, ciò che fanno (B1, 75-76) sino a giungere nella zona ritenuta da Bonatti quella, a 7950 metri circa, concordata per il nono campo (B2, schema a pagina 87).
Qui Abram accusa un inizio di congelamento a un piede e, dopo averlo ovviato con un massaggio, lascia i compagni intorno alle 18,30 per rientrare all’ottavo campo (B1, 77).
Bonatti e Mahdi seguono ancora le piste sul ripido dosso sin quasi all’imbocco del ‘collo di bottiglia’, chiamando ancora a più riprese i due della cordata di punta ma senza avere risposte e senza pertanto capire dove sia la loro tenda.
Prima dell’inizio del crepuscolo e quindi intorno alle 19,30 (le effemeridi del 31 luglio riportate da Bonatti in B2, 71 danno l’alba dalle 3,47 alle 4,20, il sorgere del sole alle 4,54, il tramonto alle 19,05, il crepuscolo dalle 19,39 alle 20,12, la notte poi), Mahdi comincia a gemere per il freddo e a mostrare segni di nervosismo (B1, 77), continuando tuttavia a salire con Bonatti sin quasi alla base del ‘collo di bottiglia’ (B1, 78), intorno agli 8100 metri (B1, 79, foto 2).
Da qui i due lanciano richiami “sempre più angosciati” e “disperati” che rimangono ancora senza risposta, al che Mahdi prende a gridare parole convulse: sperando che la tendina sia dietro un masso cinquanta metri più in alto, Bonatti si libera dal basto con le bombole e lo raggiunge, trovando però soltanto tracce semi-cancellate dal vento che salgono obliquamente verso sinistra (B1, 80).
La delusione gli procura uno shock (ivi) dal quale, accasciato sulla neve, impiega molto tempo a riprendersi (ivi); quando si rialza, certamente dopo le 20,12 (B1, 80, confrontato con B2, 71) perché il buio è ora assoluto, non può utilizzare la torcia elettrica, forse scaricata dal gelo in quanto tenuta in una tasca esterna (B1, 80).
Tornato dal portatore che intanto lancia urla impressionanti, mentre chiama ancora i compagni Bonatti vede con terrore Mahdi muoversi vacillando sul ripido pendio verso l’alto e il basso e di fianco come fuori di senno, senza precipitare solo perché, come lui, affonda nella neve (B1, 81).
Ritenendo impossibile scendere all’ottavo campo perché Mahdi volerebbe certo giù e lui non potrebbe reggerlo, Bonatti prende “istintivamente” a tagliare un gradino sul pendio (B1, 81) mentre, in preda a una “crisi spaventosa”, grida “No, non voglio morire! Non devo morire! Lino, Achille, non potete non sentirci! Aiutateci! Maledetti!” (B1, 82).
Quando riesce a superare la crisi si rende conto d’avere attuato uno scavo d’un metro per sessanta centimetri sufficiente ad accoccolarvisi in due (ivi).
Mahdi, che nel frattempo s’è andato calmando, accoglie con favore la prospettiva di sedersi con lui (ivi).
Anche se ormai rassegnato a passare la notte all’addiaccio, Bonatti chiama ancora i compagni e quando alle 21,30 circa sulla cresta a sinistra sotto la grande fascia di rocce s’accende finalmente la luce d’una torcia, segnala la propria presenza e chiede perché non ci sia stata sino allora risposta (ivi).
Il capitolo riassume i fatti secondo il racconto del solo Bonatti visto che Mahdi, sentito in Pakistan, non accenna a scene come quelle descritte (B2, 61-65).
Va comunque notato che la prima domanda di Bonatti, dopo ore di ricerche, riguardò il silenzio delle ultime ore e non lo spostamento del nono campo, come sarebbe stato naturale ove egli lo avesse allora ritenuto ‘arbitrario’.
13. Il dialogo a distanza che ne segue, disturbato dal vento sulla dorsale ove era la tendina (L, 59), ci è giunto in tre versioni in parte differenti.
Compagnoni nel 1958 racconta che ormai a notte lui e Lacedelli udirono delle urla da dentro la tendina e, dopo esserne usciti a fatica e avere riconosciuto la voce di Bonatti, gli gridarono di tornare indietro lasciando le bombole perché la traversata sarebbe stata troppo pericolosa e alla risposta di Bonatti, “Non preoccupatevi di me!”, si tranquillizzarono pensando che il compagno e il portatore sarebbero tornati all’ottavo campo sulla pista tracciata in salita (C2, 146).
Bonatti ricorda invece nel 1961 che alla sua richiesta di chiarire perché si facessero vivi solo allora, Lacedelli rispose che non potevano gelare fuori della tenda per attenderlo (B2, 39), che lo stesso Lacedelli, dopo avergli chiesto a sua volta se avesse con sé l’ossigeno gli disse di lasciarlo lì e di scendere, infine che egli (Bonatti) spiegò che per sé non ci sarebbero stati problemi ma che Mahdi era fuori di sé (B1, 82 – 83).
Nel 2004 Lacedelli, confermando d’avere parlato solo lui con Bonatti, scrive che questi chiese d’aver luce per salire, che egli rispose di non provarci perché sarebbe stato pericoloso e di tornare invece all’ottavo campo lasciando le bombole (L, 58), infine che alla precisazione di Bonatti che per sé poteva farlo, “ma è per Mahdi”, pensò che il compagno temesse di non riuscire a far ragionare il portatore e, forse contraddittoriamente, che avrebbe però potuto portarlo giù, per cui salutò, spense la torcia e, rientrato nella tendina, raccontò a Compagnoni, il quale approvò, d’aver consigliato a Bonatti di scendere (L, 59).
Ai racconti dei protagonisti del dialogo s’aggiunge il ricordo di Gallotti, nel suo Diario alla data del 31 luglio, secondo cui Bonatti, rientrato al campo ottavo al mattino di quel 31, riferì che “ieri sera lui e Mahdi verso le 22 sono giunti a breve distanza dalla tendina di Achille e Lino. Hanno gridato verso l’alto per farsi guidare fino alla tenda al buio ormai sopravvenuto ma, pur sentiti anche se le parole sono andate disperse, per un malinteso la cosa non è stata possibile …” (G, 106).
14. Allo spegnersi della torcia Mahdi viene colto da una seconda crisi e dopo avere urlato contro Compagnoni e Lacedelli tenta per due volte di scendere verso l’ottavo campo, venendo trattenuto da Bonatti che lo convince di nuovo a sedersi accanto a lui (B1, 83).
Dopo avere atteso inutilmente la riapparizione dei compagni, e averli ancora chiamati invano, Bonatti si dispone al bivacco all’addiaccio con Mahdi a 8100 metri, nel gelo della notte del tutto serena peggiorato, dopo qualche ora, da un’improvvisa bufera di neve che si placa soltanto poco prima dell’alba (B1, 83-85).
I tre ultimi capitoli forniscono i dati e permettono le osservazioni seguenti.
Il 30 luglio Bonatti raggiunse con Mahdi intorno alle 18,30, salendo in tre ore 300 metri di dislivello sulle piste dei compagni, il punto sulla “spalla” del K2, a 7950 metri, nel quale egli riteneva che secondo il piano della sera prima Compagnoni e Lacedelli avrebbero dovuto porre il nono campo e, poiché non vi erano, salì ancora sulle loro piste cercandoli e chiamandoli per altri 200 metri, alla luce del tramonto per più di un’ora e mezza e invece nel buio dopo le 20,12, sino a raggiungere la base del “collo di bottiglia” a circa 8100 metri, avendone lì finalmente risposta intorno alle 21,30 (B2, 87).
Il programma concordato poche ore prima con Abram e Gallotti (G, 105) prevedeva peraltro che egli tornasse al campo ottavo se non fosse riuscito a raggiungere i compagni, ciò che comportava l’individuazione da parte sua del momento nel quale scendere sarebbe divenuto necessario per evitare i rischi del freddo e del buio.
Una tale valutazione era comunque imposta a Bonatti dalla sua qualità di capo-cordata d’un portatore che per quanto capace non era da ritenere all’altezza degli scalatori italiani, tutti espertissimi, la cui incolumità gli era totalmente affidata e che egli sapeva privo di calzature adatte al gelo della quota, tanto più in quanto poco prima Abram, malgrado ne fosse provvisto, aveva lamentato un inizio di congelamento ai piedi.
Bonatti avrebbe dunque dovuto valutare in tempo utile l’opportunità di scendere e comunque scendere senz’altro quando Mahdi cominciò a lamentarsi per il freddo alle 19,30, o al più tardi quando il portatore prese a gridare parole convulse, intorno alle 20 per quanto si ricava dal suo libro del 1961, perché sino a quel punto, secondo le citate effemeridi, era possibile farlo in sicurezza non essendo ancora iniziato il crepuscolo né, poi, il buio.
Egli invece, ancora secondo il suo racconto, non prese in esame questa necessità in nessun momento prima che l’oscurità complicasse la discesa, o la impedisse del tutto secondo il suo giudizio.
Le scene di disperazione alle quali Bonatti racconta d’essersi lasciato andare una volta accertato che il nono campo non si trovava neppure a 8100 metri, inusitate per un alpinista di fortissima tempra quale egli era, certo non ovviarono, e anzi presumibilmente aggravarono anche per la concreta impossibilità di comunicazioni verbali (l’uno parlava solo italiano, l’altro solo hurdu, B2, 64), lo stato confusionale del portatore, abituato a considerare gli scalatori della spedizione superiori esperti e affidabili la cui angoscia non poteva che connotare una situazione di pericolo estremo e mortale.
Quanto al contatto finalmente raggiunto intorno alle 21,30 del 30 luglio, Compagnoni e Lacedelli – o meglio soltanto quest’ultimo, perché fu solo lui a scambiare con Bonatti le poche frasi urlate nel vento di cui ambedue danno conto – avrebbero forse potuto e dovuto tentare di comprendere meglio la difficile situazione di Bonatti e Mahdi e cercare di ovviarla in qualche modo.
Va notato tuttavia che a quel punto per far salire a notte questi ultimi lungo la pericolosa traversata, Compagnoni e Lacedelli avrebbero anzitutto dovuto raggiungerli e poi guidarli sino alla tendina correndo inaccettabili rischi di incidenti e congelamenti, e che queste operazioni, e dopo ancora la necessità di dividere con loro non solo la ‘Super K2’ ma i sacchi-letto sino al mattino, avrebbero sfinito tutti rendendo in concreto impossibile il balzo finale.
E va notato ancora che la conclusiva convinzione di Lacedelli, condivisa da Compagnoni, che Bonatti e Mahdi potessero raggiungere anche a notte l’ottavo campo, era, anche se non sufficientemente confrontata con lo stesso Bonatti, giustificata dai seguenti dati di fatto:
– il percorso tra il luogo ove Bonatti si trovava con Mahdi e il campo ottavo si svolgeva su un pendio di neve fonda ma assestata, inclinato a non più di 40-45 gradi solo per i primi 200 metri e sul quale erano presumibilmente ancora evidenti quanto meno a tratti, alla luce di luna e stelle nel cielo completamente sereno, le tracce di salita di quattro scalatori (un pendio sul quale peraltro, anche se questo Compagnoni e Lacedelli non lo sapevano, Mahdi non era caduto malgrado le sue acrobazie e che lo stesso portatore avrebbe percorso da solo e senza problemi all’alba del giorno seguente, come poi essi stessi al buio, tornando il 31 dalla cima);
– Bonatti, come invece sapevano Compagnoni e Lacedelli, era un alpinista d’eccezionale capacità che era lecito presumere avvezza a gestire secondi di cordata meno abili e che non poteva avere difficoltà a far scendere anche al buio un portatore per quanto agitato – e che peraltro proprio scendere voleva – con le usuali manovre di corda su un pendio di neve di 200 metri privo di ostacoli particolari;
– ciò anche in quanto lo stesso Mahdi, come pure è presumibile sapessero anche Compagnoni e Lacedelli, già arruolato nella spedizione austriaca del 1953 al Nanga Parbat e allenato dai due mesi con gli italiani sullo sperone Abruzzi, non era affatto un pivello ma un uomo descritto dallo stesso Bonatti come formidabile, il migliore dei portatori Hunza e l’unico tra loro da considerare alla pari dei più bravi sherpa nepalesi (B1, 74).
Non è allora ipotizzabile che Compagnoni e Lacedelli nutrissero dubbi sulla possibilità che Bonatti rientrasse con lui all’ottavo campo una volta terminato il difficile e troppo breve dialogo sopra richiamato.
La vetta
15. All’alba del 31 luglio Mahdi scende da solo al campo ottavo giungendovi con le estremità colpite dal gelo (G, 105): subirà poi pesanti amputazioni restando gravemente invalido, ciò che solleverà un’ondata d’indignazione anti-italiana nell’opinione pubblica pakistana.
Bonatti scende poco dopo arrivando all’ottavo campo in condizioni del tutto integre (G, 106).
16. Nella stessa mattina del 31 Compagnoni e Lacedelli abbandonano il nono campo scendendo alle bombole che Bonatti ha avuto cura di rendere evidenti sul pendio pulendole della neve notturna.
Lasciati sul posto gli zaini con il materiale ormai inutile e dei quali si caricheranno al ritorno (C1, 186), indossati i basti e fruendo dell’ossigeno supplementare, affrontano il ‘collo di bottiglia’ salendo all’inizio lungo le difficili rocce alla loro sinistra ed entrando poi nel canalone intasato di neve.
Affondano spesso sino alla vita sia lì che nell’esposta traversata sotto il grande seracco e lungo i successivi ripidi pendii: “La neve, racconta Compagnoni, una imprevista enorme coltre di neve non faceva nessuna presa sotto i nostri piedi. Dovevamo tirarla al di sotto di noi con le braccia, poi salirvi sopra con le ginocchia e cercare di pressarla. Ma era come pressare dello zucchero o della sabbia … Sprofondavo sino alla cintola e con la spalla destra sfioravo la neve che avevo a monte … ci trovammo così sospesi sullo strapiombo senza che nessuno dei due facesse sicurezza all’altro, affidati a un lenzuolo di neve quasi verticale che avrebbe potuto partire ad ogni istante.” (C2, 148-149).
I due raggiungono a sinistra una crestina, poi dossi di neve man mano più dura e, alle 18, la vetta del K2.
Dopo mezz’ora di foto e film lasciano sulla cima i basti con le bombole vuote e scendono prima nel crepuscolo e poi nella notte sul rischiosissimo percorso di salita giungendo alle 23 all’ottavo campo.
Le ascensioni successive, diverse delle quali finite in tragedia sul ‘collo di bottiglia’ o sul traverso sotto il grande seracco, in salita o in discesa dalla vetta, evidenzieranno l’eccezionale bravura e l’incredibile fortuna della cordata italiana vittoriosa sul K2 nel 1954.
Il ritorno
17. Abram, Bonatti, Compagnoni, Gallotti e Lacedelli scendono il 1° agosto dall’ottavo al quarto campo, a 6450 metri, ove pernottano.
Da qui, mentre scendono anche gli altri componenti della spedizione, Abram, Compagnoni e Lacedelli rientrano il 2 agosto direttamente al campo base dove il 3 li raggiungono Bonatti e Gallotti dopo un ultimo pernottamento al campo uno.
Gli spostamenti degli alpinisti italiani in tutti i giorni del mese di luglio del 1954 lungo i nove campi dello sperone Abruzzi sono riportati nell’accurato grafico di Mario Fantin presente nel suo libro “K2 Sogno vissuto”.
18. Dopo la lunga discesa dalla montagna, Compagnoni rientra in aereo da Karachi insieme con Rey, Fantin e il dottor Pagani, mentre tutti gli altri scalatori si imbarcano il 10 settembre sulla nave ’Asia’ che li porta a Genova ove vengono accolti da una folla entusiasta di cittadini esaltati dalla loro vittoria.
Il successo italiano laddove hanno ripetutamente fallito le spedizioni USA influisce favorevolmente sull’immagine internazionale del Paese che ne trae forza sulla via della ricostruzione.
19. Né durante la discesa dello sperone Abruzzi e nei giorni del ritorno dalla montagna e del rientro in patria né negli anni seguenti dappresso la spedizione è mai documentata una qualsiasi polemica tra gli scalatori italiani in ordine ai comportamenti reciprocamente tenuti durante l’ascensione del K2.
Non risulta in particolare che Bonatti e/o Lacedelli abbiano allora contestato a Compagnoni, o annotato per sé o riferito ad altri, le critiche e i sospetti sulle sue scelte che hanno poi avanzato contro di lui.
In effetti prima del 1958 o del 1961, come si vedrà più avanti, nessun documento accenna a contrasti o polemiche tra gli scalatori della spedizione circa i reciproci comportamenti durante l’ascensione o nel ritorno.
Esistono tuttavia anche elementi di prova positiva d’un clima di cordialità e amicizia tra di essi dopo la vittoria.
In questo senso Lacedelli, secondo cui tornando al campo base tutti gli italiani erano euforici, contenti (L, 77), nonché le pagine del libro “Tutti gli uomini del K2” di Mirella Tenderini (Corbaccio 2014), citate nel Gogna Blog del 7 luglio 2014, che descrivono l’atmosfera di grande cameratismo tra gli scalatori sulla nave che li riportava in Itala, concludendo che tra loro c’era un’intesa perfetta e che festeggiavano da amici la vittoria raggiunta.
Questa situazione è comprovata dalla foto di gruppo riportata alla pagina seguente, scattata appunto sulla nave Asia del Lloyd Triestino nel settembre 1954.
Ma è lo stesso Bonatti a confermare quel clima nell’intervista che compare il 18 novembre 1954 sulla rivista “Settimo giorno”: “Devo dire che tra noi non ci fu mai la minima divergenza di vedute, e ognuno si prodigò al limite delle sue energie, senza risparmio. In condizioni diverse, non saremmo riusciti a nulla”.
Sulla ‘Asia’, settembre 1954: Walter Bonatti è il secondo dal basso,
con Abram e Gallotti sopra di lui, Lacedelli l’uomo al centro in alto
Appare allora inattendibile la sua affermazione d’aver capito già sul K2 (B1, 87, penultimo paragrafo, e più ancora B2, 46, ultimo paragrafo) che Compagnoni e Lacedelli gli avevano giocato un brutto tiro.
Lacedelli, smentendo ancora se stesso (vedi poco sopra L, 77) racconta nel 2004 (L, 62) che rientrando al campo ottavo alle undici di sera del 31, dopo la cima, era molto dispiaciuto, che si scusò con Bonatti spiegando che lui avrebbe voluto fermarsi là (cioè nel punto ‘stabilito’) ma Compagnoni non aveva voluto, e che Bonatti gli rispose di non avercela con lui ma con Compagnoni.
Rendono inattendibile questo ricordo in ritardo di mezzo secolo anzitutto la circostanza che quel dialogo a due, in una tenda nella quale erano ammucchiati l’uno sull’altro cinque uomini, non fu sentito da nessuno
e l’altra che Bonatti, il quale già nel 1961 aveva scritto che appunto quella sera e a quell’ora cinque cuori esultarono insieme (B1, 87), non lo confermò mai, come avrebbe certamente fatto, visto che avallava le sue accuse, se avesse contenuto anche un briciolo di verità.
Ma altrettanto inattendibile appare la scusa addotta da Bonatti ad Aldo Cazzullo, si veda il Corriere della Sera 13.12.2021, di non avere denunciato allora Compagnoni perché Desio aveva imposto il silenzio: non certo a lui, che contestò come appresso relazione e film ufficiali e rilasciò liberamente la citata intervista a ‘Settimo giorno’, e comunque non in tutti gli anni dal 1954 al 1961.
La polemica
20. Il capo spedizione Desio pubblica nello stesso 1954 il libro “La conquista del K2” che riporta la relazione su “L’assalto alla vetta” scritta e firmata in prima persona da Compagnoni e Lacedelli e peraltro priva d’ogni nota critica sui movimenti e le scelte di Bonatti del 30 luglio.
Bonatti contesta la relazione di Desio sposata dal Club alpino e il film ufficiale perché non danno il dovuto rilievo al suo impegno nel portare alla cordata di punta l’ossigeno per il balzo finale ma senza, per quanto risulta, muovere critiche ai due uomini della cima: la protesta porta a qualche marginale modifica del film ma non induce né Desio né il CAI a cambiare il resoconto ufficiale.
Nel 1955 Bonatti insiste con una lettera sottoscritta da quasi tutti i componenti della spedizione ma inutilmente.
Nel 1958 Compagnoni pubblica il libro “Uomini sul K2” confermando la relazione a Desio ma scrivendo, questa volta, che Bonatti “insieme con Mahdi, preferì passare la notte lì, scavandosi un buco nella neve ed esponendosi a un rischio più grave di quello rappresentato dalla discesa verso l’ottavo campo”.
Nel capitolo “K2 – Gli ultimi campi” del libro “Le mie montagne” del 1961 Bonatti contesta a Compagnoni e Lacedelli d’avere posto il nono campo, il 30 luglio, in luogo diverso da quello concordato la sera del 29 e d’essere stato da ciò costretto con Mahdi al bivacco, dunque non da lui ‘preferito’ rispetto al rientro al campo ottavo.
Nel 1964 il giornalista Nino Giglio insinua sulla “Nuova Gazzetta del popolo” di Torino che Bonatti usò durante il bivacco parte dell’ossigeno destinato ai due della cima ma, querelato per diffamazione, è costretto a ritrattare.
Non si può peraltro, sino a prova contraria, ritenere che sia stato Compagnoni a suggerire quell’insinuazione perché
. Bonatti querelò Giglio e il giornale, non Compagnoni;
. la generica affermazione di Giglio d’essersi ispirato ai racconti di Compagnoni non comporta che questi gli avesse proposto il sospetto, semmai il contrario;
. non è plausibile che Compagnoni suggerisse a Giglio un’insinuazione che egli sapeva sarebbe stata smontata da Bonatti con estrema facilità e semplicemente notando che le maschere con i miscelatori, indispensabili per fruire dell’ossigeno contenuto nelle bombole, si trovavano negli zaini dei componenti la cordata di punta;
. che il sospetto provenisse da altra fonte è suggerito infine dalla deposizione di Mahdi, interrogato in Pakistan nel corso del processo per diffamazione, secondo cui Bonatti aveva deciso di usare l’ossigeno “al momento del bisogno” (B2, pagina 61), e dalla considerazione che l’ex portatore non aveva nessun rapporto con Compagnoni
21. Nel libro “Processo al K2” del 1985 e poi in “K2 – La verità – Storia di un caso” Bonatti insiste ancora, nel secondo (Baldini-Castoldi-Dalai editore, 4^ edizione del 2004) riportando (a pagina 148) e sottoscrivendo (a pagina 10) quanto scrive conclusivamente il trekker australiano Robert Marshall: Compagnoni non cambiò il luogo per il nono campo solo per il rischio di valanghe ma anche per mettere Bonatti in condizioni di non poterlo raggiungere, e insieme con Lacedelli non rispose ai richiami del compagno abbandonandolo al suo destino.
Nello stesso libro Bonatti accusa inoltre Compagnoni e Lacedelli d’aver mentito sulla fine dell’ossigeno, rimasto secondo i suoi calcoli disponibile sino in vetta.
Mentre la disputa va avanti nei circoli alpinistici e sui media di mezzo mondo, Bonatti conferma le accuse in altri scritti portando dalla sua l’opinione pubblica non solo alpinistica e non solo italiana, sino a quando nel 2004, cinquantennale dell’ascensione, Lacedelli pubblica col giornalista Cenacchi il libro “K2, il prezzo della conquista”.
In esso, pure insistendo sulla fine dell’ossigeno prima della vetta, lo scalatore ampezzano afferma d’avere anch’egli sospettato allora, peraltro senza esserne certo (“è un’idea mia”, L, 57) e senza mai contestarlo al suo compagno di vetta, che Compagnoni avesse spostato il nono campo dal luogo ‘stabilito’ per non farsi raggiungere e sostituire da Bonatti.
Subito prima la commissione dei ‘Tre Saggi’ nominata dal Club alpino – al di fuori peraltro d’ogni previsione statutaria dello stesso Club – e composta da Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi, ha esaminato la questione concludendo che il nono campo fu in effetti spostato arbitrariamente in un punto non raggiungibile da Bonatti, che questi fu costretto al bivacco all’addiaccio con Mahdi da un’inspiegabile carenza di comunicazioni e che Compagnoni e Lacedelli fruirono dell’ossigeno sino in vetta contrariamente a quanto da loro stessi affermato.
Queste conclusioni, condivise il 22 maggio 2004 dal Consiglio centrale del Club alpino e riportate nel libro edito dal CAI nel 2007 “K2, una storia finita”, non soddisfano del tutto Bonatti ma confermano nella sostanza le accuse che egli ha rivolto ai suoi compagni d’essersi nascosti per non farsi raggiungere, d’averlo esposto al rischio mortale del bivacco all’aperto sopra gli 8000 metri e d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno supplementare.
Giornalisti, saggisti e scrittori italiani e stranieri, alpinisti e no, intervengono nella polemica parteggiando in stragrande maggioranza prima per la versione di Bonatti poi per la relazione dei Tre saggi e la sopra richiamata condanna di Compagnoni e Lacedelli da parte del Club alpino.
Una delle rare eccezioni è costituita dal giornalista e documentarista inglese Mike Conefrey il quale nel libro del 2015 “Ghosts of K2”, pubblicato in Italia nel 2016 con l’anonimo titolo “Sulla vetta del mondo”, assolve Compagnoni e Lacedelli dall’accusa d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno svolgendo un’accurata analisi dei dati storiografici e delle immagini di vetta.
Conefrey conclude riconoscendo che i componenti della spedizione italiana del 1954 si mossero sul K2 al massimo delle possibilità di ciascuno e osservando che le vicende dell’assalto finale si svolsero a una quota, quella intorno agli ottomila metri caratteristica dei colossi himalayani, nella quale è facile commettere errori e far saltare, nel corso dell’azione, qualsiasi piano per quanto dettagliato, e dalla quale si riportano spesso ricordi non chiari.
La sommarissima cronistoria riportata negli ultimi due capitoli conferma che, come accennato più sopra, la polemica non è nata negli ‘ultimi campi’ del K2 o comunque sulla montagna o durante il rientro in Italia o subito dopo, ma è stata avviata e poi ampliata man mano a partire dal 1958 se si vuole addossarne l’inizio all’uno, dal 1961 e più ancora dal 1985 se all’altro.
Sui motivi che possono avere avuto per sollevarla e insistervi coloro che di quella polemica sono stati protagonisti e vittime, possiamo avanzare solo supposizioni oggi non più verificabili.
Resta che la presa di posizione contro qualcuno di essi, e non a favore di tutti, segno d’un provincialismo che non sarebbe stato logico aspettarsi dai Tre Saggi e dal Club alpino, è, da qualsiasi parte la si guardi, un madornale errore.
Conclusioni
La concordanza tra i racconti di Compagnoni e Gallotti sul punto del salire “il più in alto possibile”,
le incertezze e le contraddizioni del tardivo racconto proposto da Lacedelli a favore della tesi che il piano del 29 luglio prevedesse di porre il nono campo in un punto “stabilito” sulla parte alta della ‘spalla’ del K2,
la sussistenza di evidenti ragioni obiettive per andare a porlo sulla dorsale rocciosa in quanto fuori dalla linea di caduta del seracco sovrastante il ‘collo di bottiglia’
e la circostanza che le accuse a Compagnoni di violazione dei programmi concordati non risultino in alcun modo contestate o documentate durante o subito dopo o negli anni immediatamente successivi alla spedizione,
evidenziano l’inconsistenza delle stesse accuse e la loro costruzione a tavolino da parte di Bonatti a partire dal libro “Le mie montagne”, con l’adesione di Lacedelli solo quando era ormai certa la condanna del suo compagno di vetta e nel penoso tentativo d’evitarla per sé.
La dura censura emessa nel 2004 dal Club alpino nei confronti dei due componenti della cordata che salì il K2, fondata su un esame solo parziale dei fatti, assunta senza ascoltare nessuno dei diretti interessati all’epoca tutti ancora in vita e decisa senza neppure permettere agli accusati di discolparsi, dovrebbe essere urgentemente rivista.
L’ipotesi sopra avanzata d’un malinteso circa il contenuto e gli obblighi nascenti per i suoi ideatori dal piano del 29 luglio può rendere comprensibile la proposizione da parte di Bonatti, che rielaborando dal 1961 la sua lettura di quel piano si sentì tradito, delle accuse contro i due che raggiunsero la cima senza di lui e in particolare la durezza verso Compagnoni,
anche se sono sotto gli occhi di tutti i danni gravissimi che il proporle e l’affinarle e l’insistervi per decenni hanno causato all’immagine dell’impresa e dell’alpinismo italiano nel mondo.
Pure considerando la sua soggettiva lettura degli accordi del 29 luglio, e scendendo sul piano delle colpe sposato dal CAI come non vorrei ma ritengo necessario per raggiungere lo scopo che espongo più avanti,
rimane da chiedersi come mai Bonatti, alpinista d’eccezione e guida alpina in quello stesso 1954, abbia posto in atto i comportamenti seguenti, risultanti dai racconti dei protagonisti tra i quali lui stesso e che sembra assai difficile non ritenere errati:
– prevedere il 30 luglio al campo ottavo, come peraltro
Abram e Gallotti, che fosse possibile usare per il pernottamento di quattro alpinisti al nono campo la sola minuscola tendina ‘Super K2’ di Compagnoni e Lacedelli, appena sufficiente per due, o eventualmente alternarsi in essa sino al mattino, senza correre pesanti e inaccettabili rischi per l’incolumità personale e per il successo del balzo finale del giorno seguente;
– muoversi alle 15,30 dello stesso 30 luglio con Abram e Mahdi dal campo ottavo verso il nono, nella prospettiva di pernottarvi col portatore, senza prendere quanto meno due sacchi-letto di piumino;
– non rientrare all’ottavo campo ai primi lamenti di Mahdi per il freddo sapendolo privo di calzature adatte al gelo che aveva già colpito Abram malgrado questi ne fosse protetto, o comunque prima che il buio rendesse la discesa problematica o, secondo il suo giudizio, troppo rischiosa nelle condizioni soggettive e oggettive date;
– mostrarsi a Mahdi angosciato, disperato, in preda al panico e rabbioso contro i compagni, forse provocando e certamente accrescendo il nervosismo del portatore;
– insistere anni dopo il rientro della spedizione sulla possibilità d’un pernottamento a quattro nella ‘Super K2’ del nono campo, indicandola come “solo di poco” più piccola delle tende in uso all’ottavo, senza controllarne come facilmente poteva le effettive dimensioni e valendosi di tale erronea prospettiva per argomentare le accuse contro Compagnoni e Lacedelli.
Chiarisco peraltro che scopo di queste righe non è giungere a giudizi negativi sul grandissimo alpinista o sull’uomo Bonatti, ma restituire a Compagnoni la dignità che lo stesso Bonatti non volle riconoscergli e che altri gli hanno negato condannandolo senza prove, da divani non meno comodi del mio, come autore d’una infame e potenzialmente letale macchinazione contro chi aveva allora collaborato al successo della spedizione con gran fatica – e con una generosità purtroppo contraddetta dai comportamenti successivi.
Mi rendo conto che per arrivarci si deve, e non mi piace affatto, disturbare le ombre di persone che non possono più replicare, ma la posta in gioco impone di superare questo scrupolo.
Liberata dal fango che per troppo tempo e da troppe parti le è stato versato addosso, la prima ascensione del K2 può infatti tornare a essere ciò che fu sul terreno, una splendida impresa dell’alpinismo italiano.
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DIECI DOMANDE AL CLUB ALPINO
1. Su quale base di diritto il Club Alpino Italiano ha ritenuto d’avere il potere d’accertare la ‘verità storica’ delle vicende degli ‘ultimi campi’ della spedizione nazionale del 1954 al K2, quando tale accertamento non rientra nei fini che in quanto persona giuridica di diritto pubblico gli sono assegnati dall’articolo 2 della legge 776/1985, e quando il detto potere non gli è attribuito dalle norme interne né era stato mai esercitato in centoquarant’anni?
2. Come mai il Club alpino, decidendo negli anni ‘090 di rivedere la versione ufficiale sulla spedizione al K2 non considerò che dei tradimenti e delle menzogne denunciati da Bonatti non c’era traccia nella relazione del capo spedizione Ardito Desio che aveva personalmente ascoltato dai diretti protagonisti i racconti particolareggiati delle vicende occorse solo pochi giorni prima, né in alcuna delle dichiarazioni degli stessi protagonisti, compreso Bonatti che a novembre 1954 aveva riconosciuto che sulla montagna “ … tra noi non ci fu mai la minima divergenza di vedute, e ognuno si prodigò al limite delle sue energie, senza risparmio.”?
3. Sulla base di quale documentazione il Presidente generale del Club alpino ha sostenuto nella lettera del l l 1° febbraio 2024 che non v’è mai stata alcuna condanna del CAI nei confronti di Compagnoni e Lacedelli in ordine alle accuse loro di Bonatti, quando sia la relazione 28 aprile 2004 dei Tre Saggi’ condivisa dal Consiglio Nazionale CAI con delibera 22 maggio 2004, sia il libro CAI del 2008 ‘K2, una storia finita’ affermano chiaramente che i due della vetta violarono gli accordi presi con Bonatti per l’assalto finale spostando il nono campo in luogo diverso da quello concordato e non dissero il vero sul momento della fine dell’ossigeno supplementare?
4. Per quali ragioni il Consiglio Nazionale CAI deliberò il 114 febbraio 2004 di far valutare la fondatezza delle accuse proposte da Bonatti a Compagnoni e Lacedelli in ordine a vicende occorse intorno agli ottomila metri da Fosco Maraini, alpinista di valore ma amico, ammiratore e compagno come fotografo dello stesso Bonatti nella spedizione al Gasherbrum IV, e da Alberto Monticone e Luigi Zanzi, storici insigni ma del tutto digiuni d’alpinismo d’alta quota, quando poteva scegliere tra molti scalatori e capi-spedizione himalayani certamente imparziali e altamente qualificati sia a livello tecnico che culturale?
5. Sulla base di quali considerazioni il Club alpino condivise con la citata delibera 22.5.2004 la Relazione dei ‘Tre Saggi’ quando non poteva ignorare che essa era stata redatta senza valutare i diari scritti nell’immediatezza dei fatti dai protagonisti delle vicende in questione e in particolare quello di Pino Gallotti, il quarto uomo del ‘piano’ del 29 luglio, senza considerare che il piano concordato il 29luglio al campo ottavo tra quattro dei più forti ed esperti alpinisti italiani non poteva ragionevolmente prevedere, come voleva Bonatti, che la cordata di punta superasse nel primo dei due giorni dell’assalto finale solo trecento metri di dislivello, da 7640 a 7950, dunque sotto gli ottomila e su un percorso nel primo tratto già noto e in seguito privo di difficoltà – e invece nel secondo giorno, quando quota e stanchezza si sarebbero fatte più sentire, ben settecento metri di dislivello in salita, da 7950 a 8611 e dunque sopra gli ottomila, con l’aiuto dell’ossigeno supplementare ma con l’aggravio del peso delle bombole, su un percorso con evidenti fortissime difficoltà nella prima parte, e altri mille metri i in discesa dalla vetta, senza sentire nessuno dei protagonisti, tutti nel 2004 ancora vivi ma destinati a scomparire di lì a poco, e soprattutto senza permettere ai due accusati, e in particolare a Compagnoni che l’aveva chiesto, di discolparsi dalle accuse loro mosse, in ciò ripetendo il comportamento di Bonatti che aveva rigettato la richiesta a lui più volte avanzata da Compagnoni d’un incontro chiarificatore affermando sprezzantemente che il suo ex compagno non aveva “più diritto, per una questione di decenza, a un confronto pubblico”?.
6. In particolare sulla base di quali considerazioni il Club Alpino ritenne il 22 maggio 2004, e ritiene ancora, che Compagnoni e Lacedelli avessero violato l’accordo con Bonatti per l’assalto finale spostando l’ultimo campo in luogo diverso da quello concordato, quando l’imparziale Gallotti aveva testimoniato nel suo diario già reso pubblico e tenendo ferma questa versione quando Bonatti nel 2002 gli aveva chiesto di cambiarla, che quell’accordo imponeva alla cordata di punta di porre quel campo “il più in alto possibile “e dunque non in un punto prestabilito quando dallo stesso diario risultava che Bonatti lasciò il 30 luglio con Abram e Mahdi il campo ottavo con le bombole d’ossigeno d’accordo che sarebbe tornato indietro se non fosse riuscito a raggiungere la cordata di punta e quando questo accordo era evidentemente incompatibile con la versione dello stesso Bonatti che quella cordata dovesse fermarsi in un luogo posto più in alto di soli trecento metri, poi da lui superati con Mahdi e Abram in sole tre ore?
7. Ancora in particolare sulla base di quali considerazioni il Club alpino ritenne il 22 maggio 2004, e ritiene ancora, che Compagnoni e Lacedelli avessero mentito sul momento della fine dell’ossigeno supplementare prima dell’attivo in vetta quando la supposta menzogna era negata concordemente dai due accusati, guide alpine esperte e dalla vita integerrima, mancava non solo d’ogni prova ma d’ogni plausibile motivazione visto che salire sopra gli ottomila metri senza ossigeno supplementare non era all’epoca considerato positivamente ed era stato nel caso vietato da Desio, e non poteva essere stata architettata dai due alpinisti, soggetti all’opposto per carattere, esperienze e rapporti con i compagni e col capo-spedizione, né prima d’avere raggiunto la cima né dopo, nelle condizioni estreme della discesa notturna, quando i calcoli sui tempi di salita proposti da Bonatti erano palesemente errati perché non consideravano che nella prima metà le difficoltà tecniche e il pessimo stato della neve avevano richiesto un consumo d’ossigeno enormemente superiore rispetto alla seconda, quando ancora le illazioni di Marshall sulle foto di vetta erano in evidente contrasto con l’esperienza elementare d’ogni alpinista e quando infine liberarsi dai basti una volta esaurito l’ossigeno avrebbe comportato operazioni complicate e perdite di tempo e soprattutto non poter lasciare in vetta, la prova d’esserci arrivati, un peso molto ridotto dopo che una bombola ne era stata tolta e quando le altre due erano vuote?
8. Su quale base aritmetica il Consiglio nazionale ha scelto di nuovo, con la delibera 26 aprile 2023, la versione di Bonatti che il piano per l’assalto finale prevedesse di porre l’ultimo campo in un luogo stabilito intorno ai 7950 metri, pur sapendo, come per loro colpa non sapevano i ‘Tre Saggi, nel 2004, che l’opposta versione che quel piano prevedesse di porre il detto campo il più in alto possibile e dunque non in un luogo prestabilito era stata sostenuta non solo da Compagnoni e Lacedelli ma anche da Gallotti, quindi da tre su quattro degli alpinisti che al campo ottavo avevano preso gli accordi in questione, e dovendo ritenere inattendibile, perché contraddittorio con la sua stessa narrazione e secondo le ampie e mai contestate ragioni proposte nel libro ‘K2 la storia continua’ e nei documenti K2 vittoria pulita’ e ‘Riabilitate Compagnoni!, il voltafaccia sul punto di Lacedelli, giunto dopo mezzo secolo nel suo libro del 2004?
9. Perché il Club alpino ha rifiutato di risolvere il ‘caso k2’ condividendo la più che plausibile ipotesi d’un malinteso nella discussione del ‘piano’ per l’assalto finale, ipotesi ad esso Club avanzata più volte con argomenti mai contestati e fatta oggetto di due delibere del Consiglio nazionale, quando quel riconoscimento avrebbe reso comprensibile la discordanza nell’attuazione del piano, giustificato soggettivamente le accuse di Bonatti e la tenacia e l’asprezza bell’insistervi e soprattutto restituito all’impresa corale del 1954 la dignità toltale da decenni di polemica a senso unico?
10. Per quale grave motivo la civile richiesta di un Socio intesa a risolvere una questione di tale importanza per il Club Alpino da richiedere due convocazioni straordinarie del suo massimo organo deliberante, è stata, dopo la promessa d’una “adeguata risposta”, rigettata dal Consiglio Nazionale con le due contraddittorie delibere del marzo e dell’aprile 2023 senza una sola parola di spiegazione sulle ragioni per le quali gli argomenti nuovi e ampiamente discussi e provati che la sostenevano non sarebbero stati degni d’esame e dunque in violazione delle regole di corretta ed educata convivenza previste dal secondo comma dell’articolo 9 dello Statuto CAI per i rapporti tra i Soci anche quando costituiti in organi collegiali, senza poi che la stampa CAI spendesse anche un solo rigo sulla stessa rilevante questione, con la conseguenza ultima d’indurre alle dimissioni il Socio ultra-settantennale che l’aveva sollevata?
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ENGLISH TRANSLATION:
K2, a victory without shadows
By Francesco Saladini
Sharing the accusations made by Walter Bonatti and the opinion of the so-called “Three Wise Men”, in 2004, the Italian Alpine Club decreed that the only Italian eight thousand had been summited fifty years earlier by two scoundrels. However, another truth is possible and indeed proven by this document, a truth that does not diminish Bonatti’s commitment on the ground but restores dignity to the two at the summit, to the entire Desio expedition, and to our mountaineering.
**Summary**
1. Are Bonatti’s accusations against Compagnoni, that he moved the last camp of the K2 expedition to a different location than agreed upon to avoid being reached, opinion which was later shared by Lacedelli, that he abandoned him knowingly at the bivouac in the open, and that he lied about the end of the oxygen, founded?
– No. For none of these accusations was any objective evidence provided by those who were meant to supply it; all are merely arbitrary conjectures and suspicions based on uncertain clues and contradicted by the facts and real situations.
2. Were those accusations raised against Compagnoni, or presented to others, immediately after the events to which they refer?
– No. There were no objections or disputes among the climbers of the expedition, neither immediately after reaching the summit, nor during the descent along the Spur, nor while leaving the mountain or during the journey back, and not even for many years after returning.
3. Why then did Bonatti wait until after 1960 and Lacedelli half a century later to make those accusations?
– The only plausible explanation for Lacedelli’s “late remorse” seems to be the intention to separate his own fate from that already decided for Compagnoni, while for Bonatti the various possible hypotheses, such as the need to shift responsibility for Mahdi’s frostbite to others, or after 1964 the resentment toward the insinuation made by Giglio attributed to Compagnoni, could play a role. They should have called the attention of the Three Sages if their search for ‘historical truth’ had not been one-sided. Today, it is certain that those suspicions did not arise in 1954 and on K2, but were crafted at a desk years or decades later, which should be enough to reveal their inconsistency.
4. Is it true, in particular, that Compagnoni violated the plan for the final assault by climbing too high?
– No. In agreeing to that plan, the four from the eighth camp—Compagnoni, Gallotti, Lacedelli, and Bonatti—did not come to an understanding on “how high” the summit team should ascend: for Compagnoni, it was “as high as possible”; for Bonatti, “as low as possible”; for Lacedelli, up to a ‘designated’ point which he did not clarify and on which he did not ask Compagnoni to stop, while Gallotti fully confirmed Compagnoni’s interpretation. The latter, designated by Desio and confirmed by his teammates as the leader of the summit team, ascended the next day as far as he could because that was how he (and Gallotti) understood he was supposed to act.
5. Why did Compagnoni, having reached 8,100 meters with Lacedelli, divert to place the ninth camp outside the route of ascent?
Not to hide, given that Bonatti and Gallotti, of whom Compagnoni at the time of the diversion was unaware that Mahdi had replaced, were climbers capable of reaching him anywhere, but to avoid exposing the ninth camp to possible avalanches from the ‘bottleneck’ choked with snow and the collapses of the large serac, which had been lethal in future attempts.
6.Even though there is no proof in this regard, is it plausible that Compagnoni and Lacedelli invented the lie about the end of the oxygen before reaching the summit?
No. There was no reason for a lie that would not add glory to the conquest, because not using oxygen was then considered not a mark of pride but a dangerous mistake, prohibited by Desio; and it is absurd to suppose that in the prohibitive nighttime descent two people so different in age, background, experience, and sense of responsibility could agree on it.
7.Could Compagnoni and Lacedelli have and therefore should have helped Bonatti and Mahdi to prevent them from bivouacking in the open?
They could not until there was light, except at the risk of exposing themselves to the evening cold outside the small tent of the ninth camp, nor once darkness fell due to the difficulties posed by the section separating them. But they also should not have, because Bonatti did not explicitly ask for help and did not clarify that Mahdi was out of his mind, while it was inconceivable that a climber of his caliber could not manage to get down even at night, but with a perfectly clear sky, the most capable of the porters, assuring him with the usual rope maneuvers and on the ascent tracks of four people along a slope of 40-45 degrees of 200 meters of deep snow (which the same porter later descended alone and without problems at dawn the next morning).
8. However, assuming that from Bonatti’s phrase “it’s for Mahdi,” and given the late hour, it should be understood that he did not think he could descend with the porter, is Compagnoni also responsible for not alerting himself?
No. Compagnoni remained inside the tent; he probably heard Lacedelli shouting at Bonatti to leave the oxygen and descend but not the last sentence, and he was nonetheless reassured by his companion once he returned. His mind was certainly occupied with anxiety about the ascent the following day, and it does not seem fair to accuse him from the comfort of a couch for not having thought that there were problems, for not having gone out to resume the dialogue with Bonatti, and for not having dedicated himself to a rescue that would likely have resulted in the failure of the expedition after two months of effort and the death of a companion on the Abruzzi spur, with the summit within reach.
9. Did the Three Sages therefore get it wrong?
Their ‘investigation’ does not consider Gallotti’s testimony on the fundamental point of the ‘relocation’ of the ninth camp, nor the objective danger of spending the night on the fall line of the large serac, nor the concrete impossibility for Compagnoni and Lacedelli to provide help to Bonatti and Mahdi under the extreme conditions of the moment, nor Compagnoni’s lack of involvement in the dialogue between Lacedelli and Bonatti. As for the alleged lie about the end of the oxygen, it does not take into account the significant difficulties at the beginning of the ascent, the fact that there were only two tanks at the summit and not three, and that there was no reason or even the objective possibility for the construction of such a lie.
But even more fundamentally, their ‘investigation’ is unreliable because the key players were not heard on the pivotal points of the matter, all of whom were still alive in 2004, and because of the refusal to listen to Compagnoni, following Bonatti, who had repeatedly rejected his requests for a confrontation. The Three Sages made their decision under the pressure of public opinion stirred up by Bonatti in hundreds of articles, interviews, conferences, and books against Compagnoni and because they were tasked by the CAI to ascertain a truth different from that of Desio, which could only be Bonatti’s truth. The verdict was already written when the CAI initiated the process that would lead to their assignment.
10. But is it too late to address such old facts today?
No, because decades of controversy have led to infamy for the two men of the summit and for the 1954 expedition itself. If this conclusion is wrong, it can and must still be modified, not only for their memory but also to cleanse the image of the Alpine Club and Italian mountaineering.
**Preamble**
The victory of the Italian alpine expedition of 1954 on K2 has been overshadowed by accusations—of violating agreed-upon terms and then of lying about the end of supplemental oxygen—leveled by Walter Bonatti against Achille Compagnoni and Lino Lacedelli, the two men who reached the summit. These accusations were reiterated for decades, ultimately leading to their condemnation as traitors and liars by the Italian Alpine Club in 2004.
**Rightly so?**
In reality, a narrative based on an analytical examination of the testimonies from the key players regarding the final assault on the summit of K2 has yet to be written, rather than relying on the suspicions and insinuations that prompted Bonatti to launch and sustain his accusations.
In particular, none of the protagonists involved, nor any of their commentators, have taken the initiative to reconstruct, with rigor and completeness, the accounts of what was agreed upon at the eighth camp regarding the methods of the final assault. It has been assumed that critical circumstances were established, such as the belief that the climbers present at that camp on the evening of July 29 intended to spend the following night at a specific location and altitude on the upper part of K2’s shoulder, which was, in fact, not visible from that point, and that four people would be crammed into a high-altitude tent designed to accommodate a maximum of two—without verifying whether such predictions were plausible at the time, or by whom, and under what circumstances and operational terms these decisions were made.
This has led to evaluations or condemnations of one or another party without comparing their behavior against the source from which it derived, because that source had not been thoroughly investigated, or not with the necessary rigor and completeness.
Moreover, investigating it— and thus correctly assessing the consistency of individual behaviors—is still possible based on the writings left by the protagonists of those agreements. This is what I attempt to do in the pages that follow, firstly providing a critical list of the sources consulted regarding the various and often conflicting positions expressed by the protagonists, then offering my account of the final days of the first ascent of K2, which reflects the positions I consider correct and the reasons behind my choices, as well as the essential moments of the ensuing controversy, and finally summarizing everything in the conclusions.
In particular, the narrative is presented in a different typeface (Arial) compared to the other one used (Georgia) and unfolds in numbered chapters, each of which pertains to a salient moment of the events narrated. Each chapter, except for completely uncontroversial data, is followed by an explanatory comment in the same typeface but in italics. In both the narrative and the comments, references to the texts listed in the chapter titled ‘The Sources’ and to the relevant pages or other writings and documents are included in parentheses. These citations are entirely reliable and can be checked against the books and other documentation still available for purchase or easily accessible.
At this point, I must say that I previously attempted to contest the condemnation of the Alpine Club by publishing a booklet in 2018 titled “K2: The Story Continues.” However, that brief essay, which did not fare well in terms of sales and received only two or three reviews, was flawed by an incomplete examination of the writings of the protagonists—particularly because I did not know Pino Gallotti’s Diary in its entirety and had misread Compagnoni’s account to Desio. Therefore, I felt it necessary to apologize for that, as I do now with conviction, and then attempt to correct it as I do in the following pages.
I return to the events of K2, particularly because, revisiting the case during the pandemic closures, I was struck by the tone of absolute contempt used by Bonatti (in “K2 La verità,” 1996, 4th edition 2004, page 176) in rejecting the meeting repeatedly requested by his old expedition colleague for the obvious purpose of explaining their respective positions: “No. Even though Compagnoni has nothing left to lose, today his discredit no longer gives him the right, for reasons of decency, to a public confrontation!”
This dehumanization of the ‘enemy,’ which in Bonatti’s view—and then public opinion—particularly targets Compagnoni based on his accusations, seemed to coincide with the incredible nonchalance of the aforementioned ‘Three Sages’ appointed by the Alpine Club in condemning him—without hearing from the other protagonists of the expedition, without investigating circumstances that are as evident as they are decisive, such as those detailed later on, and especially without calling him to defend himself—the man who, with his tenacity (it should not be forgotten that Lacedelli wanted to descend on the morning of July 31, page 60 of his book “K2, Il prezzo della conquista”), had given Italy victory on K2.
I must further clarify that the topic I am revisiting is that of the decisions and behaviors of the members of the two leading teams on July 29 and 30, 1954, and not the issue of the oxygen duration during the final ascent on the 31st, which Bonatti evidently raised to portray Compagnoni and Lacedelli as liars—implying that if they lied about that point, they could also have falsified everything else.
Regarding this aspect, I refer to what I stated in my book “K2: La storia continua,” Librati Editrice 2018, pages 53 to 78, summarizing very briefly that against Bonatti’s accusation stand both the data from the ascent on July 31, which, as will be seen, was much more challenging in the early part than in the final stage, and the absence of any plausible reason for Compagnoni and Lacedelli—serious and well-known mountain professionals, but individuals entirely different in character and spirit, one being a team player and the other a rebel—to agree on such a lie, from which they would gain no additional glory before reaching the summit or during the extreme danger and stress of the nighttime descent.
Additionally, there were the consistent circumstances that the tanks of that time, including the German Drager tanks, lost oxygen when used at high altitude, and therefore did not guarantee the flow for the hours Bonatti considered in his minute calculations. Other Himalayan climbers continued to carry empty tanks due to the difficulty or inconvenience of getting rid of them. Compagnoni and Lacedelli had a valid reason for bringing them to the summit, leaving them there to prove their victory in the likely event they fell during a descent that they knew would be prohibitive at that point, and finally, they reached the summit with two empty tanks on their backs and not three, for a total weight of less than 13 kilograms and not 19. I do not believe, despite the uproar that the issue has caused, that there is any reason to discuss it further.
**The Sources**
The account I will present later is based on the writings of the four protagonists involved in the events of July 29 and 30, 1954, namely Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Pino Gallotti, and Lino Lacedelli (not on the book “Erich Abram, un alpinista bolzanino,” Comune di Bolzano 2004, because Abram adds nothing to the accounts of his companions).
The texts I refer to, which I am familiar with, are identified as follows for easy reference later:
B1: Walter Bonatti, “Le mie montagne,” Zanichelli publisher 1962 (this is the year indicated in my volume as the copyright year, although the book is widely considered to have been published in 1961), edition January 1965;
B2: Walter Bonatti, “K2 La verità – Storia di un caso,” Baldini-Castoldi-Dalai publishers 1996, 4th edition 2004;
C1: Achille Compagnoni, report to expedition leader Desio published in Desio’s book “La conquista del K2,” Garzanti publisher 1954, edition May 2004;
C2: Achille Compagnoni, “Uomini sul K2,” Veronelli publisher 1958, as referenced in “K2, Conquista italiana tra storia e memoria,” Bolis Edizioni 2004 (the page numbers are those of this latter volume);
G: Pino Gallotti, “Spedizione italiana al K2 – 1954 – Diario alpinistico,” printed in 2010 by Paola Gallotti on the “Il mio libro” platform (and partly included in the CAI book “Milano e le sue montagne,” 2002);
L: Giovanni Cenacchi and Lino Lacedelli, “Il prezzo della conquista,” Mondadori publisher 2004, third edition.
However, not all of these texts are equally reliable, and greater credence should obviously be given to those written during the expedition or soon after, compared to those that sparked controversy many years later or were drafted during its peak. The highest degree of reliability should then be attributed to Gallotti’s Diary, as it was written by an impartial protagonist during the expedition—day by day, except for specific occasions (such as June 26 and 30, August 1 and 2) and for the period from July 19 to 31 (noted “from August 8 at base camp”)—recording events in the immediacy of their unfolding.Both Compagnoni’s report to Desio, co-signed by Lacedelli and submitted to the expedition leader in the fall of 1954, and “Uomini sul K2,” written by Compagnoni in 1958, can still be considered reliable, as until that date, and even beyond, there is no evidence of discord among the climbers of the expedition. Bonatti’s book from 1961, “Le mie montagne,” is also deemed reliable, as the account of those days is primarily based on it.
Conversely, “K2 La verità,” published in 1996—revised from “Processo al K2” from 1985, in which Bonatti explicitly accuses Compagnoni and Lacedelli of moving the ninth camp to avoid being replaced by him in the final push and adds that they lied about the end of the supplemental oxygen—has less credibility because it was written decades after the events, amidst ongoing confrontation.
The reliability of the book “K2, Il prezzo della conquista” by Cenacchi and Lacedelli is minimal due to several reasons:
– It was published in 2004 after fifty years of silence (or at least forty, considering the interview conducted in 1994 with Roberto Mantovani for ‘Rivista della montagna,’ which, by the way, I have not been able to read in its entirety), at a time when public opinion—both among mountaineers and the general populace—had firmly sided with Bonatti, shortly after the condemnation dated May 3, 2004, by the ‘Three Sages’ appointed by the Alpine Club.
– Until then, Lacedelli had never accused Compagnoni of betraying the agreements made with Bonatti, neither in his writings nor in conversations with friends, nor in a joint interview with Compagnoni by Dino Buzzati for “Corriere della sera” (L, 27) in November 1954.
– The numerous quoted dialogues endorsing Bonatti’s accusation against Compagnoni for betraying the plan on the 29th are not credible because if Lacedelli, as is plausible, did not keep a diary during the expedition, he would not be able to recall words and phrases with such precision after fifty years. However, if he did keep one, as he seems to claim (L, 76), he would certainly have shown it to Cenacchi to lend credibility to his statements, yet Cenacchi makes no mention of it.
– The text contradicts itself by indicating different and well-distant points as the ‘established’ location on the 29th for the ninth camp, and it makes Lacedelli say (L, 58) that “if we had been four, it would have been even better,” and that “I was fine with Bonatti coming up or even the Hunza” (L, 60); later, he admits (L, 59) that four could not camp in the ‘Super K2’ and (L, 61) that even to take shelter as best as possible in three, it would have to be cut down.
– nor does he ask why Lacedelli, if he truly believed that a ‘designated’ location had been established for the ninth camp, did not ask Compagnoni on the 30th to stay there if that point was on their climbing route, or to return if it was not.
The anxiety to avoid the negative judgment already formed against him and Compagnoni in public opinion and within the Alpine Club evidently led Lacedelli to overreach, and it is indeed his exaggerations that render him unreliable.
**The Account**
**The Plan for the Final Assault on July 29**
2. In the afternoon-evening of July 29, 1954, in one of the two tents of the eighth camp at 7,630 meters on the shoulder of K2, four leading men of the expedition—Achille Compagnoni, a 39-year-old mountain guide from Cervinia; Pino Gallotti, 36, an academic from Turin; Lino Lacedelli, 28, a guide from Cortina; and Walter Bonatti, 24, an academic and guide during that same year from Courmayeur—discuss the plan for the final assault. Compagnoni has been designated by Desio for this attack along with Ubaldo Rey, another guide from Courmayeur, who has had to withdraw due to exhaustion. Gallotti is an excellent chemical engineer and skilled climber, and Lacedelli, along with Bonatti, is among the best Italian climbers of the moment.
At the seventh camp, ready to join them are Eric Abram, 32, a mountain guide from Bolzano, and the two best porters, Isakhan and Amir Madi, both Pakistani and of Hunza ethnicity, like all the others.
In the camps set up along the Abruzzi spur, in addition to the porters, the other members of the expedition are waiting to learn the outcome of the final assault, namely Rey, Ugo Angelino, an academic from Biella, Cirillo Floreanini, an academic from Friuli, Gino Soldà, a mountain guide from Recoaro Terme—the oldest climber at 47—and Sergio Viotto, a guide from Courmayeur. Meanwhile, at base camp, expedition leader Ardito Desio, doctor Mario Pagani, and photo and film operator Mario Fantin are waiting with them. Mario Puchoz, a guide from Courmayeur, is no longer with them; he succumbed at 36 on June 21 to pulmonary edema along the spur, and his body lies in a stone grave at the foot of the mountain.
3. Above the two tents of the eighth camp hangs a thirty-meter-high ice wall, followed by a snow ridge that forms the upper part of the ‘shoulder’, a steep gully later known as the ‘bottleneck’ under a colossal serac rising 120 meters (Ed Viesturs, “K2, La montagna più pericolosa della terra,” Corbaccio 2010, page 20), and, to the left, a challenging traverse that opens the way to the increasingly gentle summit slopes.
4. The ice wall above the eighth camp obstructs the view of the mountain up to those summit slopes (B1, 72 and B2, 62), but Compagnoni and Lacedelli were able to observe it on the morning of July 29, when they climbed over the wall, leaving above it the supplies necessary to establish the ninth camp (C2, 144).
5. On the evening of the 29th, the four agree that on the following day, July 30, Compagnoni, already designated as the lead by expedition leader Desio, will climb with Lacedelli to set up the said final camp, while Gallotti and Bonatti, who volunteers for this task (L, 62), will descend above the seventh camp to retrieve two loads with the supplemental oxygen necessary for their companions for the final push, and they will bring them up to the others.
The circumstances are understood to be settled for Compagnoni, Lacedelli, and Bonatti, while Gallotti (G, 104) seems to report the ‘delineation’ of the plan on the morning of the 30th.
However, it is not plausible that the program for the final assault was not discussed on the afternoon-evening of the 29th, given that action was to be taken the following morning and the four climbers would leave in different directions and at different times—Compagnoni and Lacedelli ascending at 5:30 (C2, 145) and Bonatti and Gallotti descending at 8 (B1, 71)—therefore, it should be assumed that Gallotti intended to reference that “delineation” from the previous evening.
6. The conversation on the evening of the 29th among the four climbers ends with them holding different convictions about the specifics of the task of the lead team. Compagnoni believes that it was decided that he and Lacedelli should “approach as close to the summit as possible, postponing the final push to the 31st” (C2, 145) and recalls (C1, 183) that indeed on July 30 “we two went up to set up the so-called 9th camp: in reality a very small tent… We tried to get it as high as possible, just below the rocky band that cuts across the last section of the eastern wall,” immediately specifying that he and Lacedelli were even under the illusion, while ascending on the morning of the 30th, that they would manage to place the ninth and final camp above the ‘bottleneck’ (ibid).
Gallotti is also convinced that the plan from the 29th foresees for the Compagnoni/Lacedelli team the task of ascending “to set up the 9th camp, that is, the very light Super K2 tent, as high as possible” (G, 104) and does not disavow his conviction from that time when, in 2002, Bonatti asks him to do so (B2, 241-246).
Conversely, Bonatti believes that on the 29th it was decided that the lead team should place the final camp not at the designated location and thus below…Bonatti, on the contrary, believes that on the 29th it was decided that the lead team should place the final camp not in the designated location, which is below and to the left of the large band of red rocks (Desio had generically anticipated “a 9th camp at about 8,000–8,100 meters,” see his “La conquista del K2,” Garzanti 1954 in the 2004 reprint, page 142), but instead “as low as possible,” about one hundred meters lower, to allow him and Gallotti to carry out the “grueling mission” of transporting the tanks (B1, 70-71).
Finally, Lacedelli, who came out of the conversation on the 29th convinced that a precise point for the ninth camp had been “established,” places it variously “next to the ‘bottleneck,’ where there was a bump” (L, 57), thus at 8,050–8,100 meters, or “at an altitude of 7,950” (L, 61), or at the point of the traverse to the left decided by Compagnoni (L, 57), and therefore again around 8,100 meters.
7. This divergence in beliefs between Compagnoni and Gallotti on one side, Bonatti on another, and Lacedelli on yet another is evidently the result of a misunderstanding, presumably induced by altitude and fatigue, certainly favored by the aforementioned circumstance that the area of the ‘bottleneck’ is not visible from the eighth camp due to the ice wall that looms above it, but perhaps primarily caused by the differing perspectives of the two lead and support teams.
If one were to rely on numerical predominance, one would have to favor Compagnoni’s version (that on the evening of the 29th it was decided to place the ninth camp “as high as possible,” thus not at a predetermined point), as it is supported by Gallotti’s immediate written account, compared to Bonatti’s version (that it was instead decided to place it “as low as possible” and at a well-identified point, although not visible from the eighth camp), which was formulated many years later at the onset of the controversy and lacking confirmation; Lacedelli’s account cannot be considered confirmation, as it is contradictory and arrived after almost half a century of silence.
However, there is another explanation for the divergence in versions, which is plausible and respectful of the words of the individual protagonists. This explanation is that a misunderstanding may have arisen among the four architects of the plan on July 29—others have already referred to it as an ‘equivocal’ situation—that led them, in perfect good faith, to interpret it on the ground in terms incompatible with one another and to tenaciously uphold those differing interpretations for decades.
This misunderstanding stemmed, as noted above, from fatigue, altitude, anxiety for the imminent action, and a lack of interest in the details, overshadowed by the desire to achieve victory, from the ‘impossibility of seeing,’ while they were discussing, the operational field, and also, and perhaps especially, from the difference in the tasks that each of the two teams was preparing to fulfill the following day.
n fact, placing the ninth camp “as high as possible” would not only have entailed greater effort for those involved in transporting the tanks but also the risk that they might not be able to get them up there. However, if successful, it would have facilitated the task of the team assigned to the final push the following day. On the other hand, bringing the oxygen “as low as possible” would have reduced the effort of those in charge of the transport but increased the burden on the lead team, with the risk that the oxygen would run out long before reaching the summit.
It is within this dissonant framework, characterized by not only different but conflicting needs and perspectives, that each of the two main protagonists will present themselves in the post-expedition controversy, as will be seen, absolutely convinced of their own version. Bonatti even accuses Compagnoni of having ‘moved’ the location of the ninth camp higher than expected in order to hide for fear of having to yield his place in the lead team, which forced him and Mahdi to potentially fatal exposure to the elements, and repeating this accusation until he convinced the Alpine Club in 2004. Meanwhile, Compagnoni steadfastly maintains until his death that he acted according to the agreements made on July 29 by ascending to establish the ninth camp at 8,100 meters, specifying that he had to move left to shelter it from potential collapses of the large serac.
To reasonably consider either one of these protagonists as acting in good faith would be possible only if one reasons with a preconceived notion. A calm examination of the contrasting behaviors and memories of the architects of the ‘plan’ from July 29, 1954, can only lead to the recognition of a mutual misunderstanding regarding the placement of the ninth camp.
**The Moretti ‘Super K2’ Tent**
8. On the morning of July 30, as agreed the evening before, Compagnoni and Lacedelli ascend the ice wall that overlooks the eighth camp and, having retrieved the loads left above it, continue up the high part of the ‘shoulder’ towards the rocky band that supports the summit of K2. They carry with them, in addition to climbing equipment, the Moretti ‘Super K2’ tent weighing 2.7 kilograms, down sleeping bags, a stove, and supplies (C2, 145).
That same morning, departing from the eighth camp around 8, Bonatti and Gallotti descend about two hundred meters below it to where the loads with the tanks are (B1, 71) and there meet Erich Abram and porters Isakhan and Mahdi, who are ascending from the seventh camp carrying down sleeping bags for themselves (B1, 72).
After loading the two packs, each weighing 19 kilograms, Bonatti and Gallotti ascend with their companions along the brief traces they had carefully left on their descent (B1, 72), reaching the eighth camp around 12 o’clock (G, 105). After having a quick meal with the porters, the three Italians agree that Bonatti and Mahdi, accompanied by Abram, will take the oxygen tanks to the lead team, while Gallotti and Isakhan, too exhausted, will remain at the camp (G, 105).
The plan specifically states that Abram will return in the evening, while Bonatti and Mahdi, in the event that they “do not manage to return to this base in time, will have to make do and spend the night huddled together as best as possible in the tent alongside Lino and Achille” (G, 105).
Here again, there is a contrast between different accounts. In fact, while Compagnoni recalls that on the evening of the 29th, it was decided that everyone would spend the night together at the ninth camp the following night, without specifying how, Bonatti in his 1961 book reports that the agreement from the 29th called for the four of them to spend the night crammed together in the tiny ‘Super K2’ tent brought up by the companions: “If this plan succeeds, tomorrow night we will be up there in the tiny tent of the 9th camp, all four of us huddled together just as we are now,” waiting together for dawn (B1, 71). He then adds (B2, 75) that this would be an uncomfortable arrangement, but it was what was planned in the agreements of July 29.
Conversely, Gallotti— as seen—states that the overnight stay of the members of the two teams in a single tent was proposed on the 30th by him, Abram, and Bonatti, and only as a contingency in case the two carrying the tanks were unable to return to the eighth camp (G, 105).
There is no doubt that between Bonatti’s version, which states that the overnight stay for the four in a single ‘Super K2’ had also been decided by Compagnoni and Lacedelli on the 29th, and Gallotti’s version that such an overnight stay was planned on the 30th without them, and only as a subordinate hypothesis, the latter is preferable. Therefore, as mentioned earlier, I include it in the account.
This is for the following reasons:
– Gallotti writes, as previously noted, in the immediacy of the events and not years later or in a climate of even initial controversy, as Bonatti does;
– Completely ‘third-party’ with respect to the commitments of the two teams active on July 30, he had no reason to completely fabricate the agreement of that day;
– While Compagnoni and Lacedelli also write that on the 29th it was decided to spend the night together before the final assault on the ninth camp, they do not write anywhere in their recollections that this was to take place in a single tent;
– It is not plausible that they, peacefully designated to make up the lead team, would have planned on the 29th to accommodate two companions in the tiny ‘Super K2,’ which would have disturbed their necessary rest before the final push;
– Only Gallotti’s version explains Compagnoni’s reluctance, emphasized by Lacedelli with the intention of accusing him, to accept the arrival at the ninth camp of Bonatti and Mahdi, who were evidently without a second tent or small shelter to take refuge in, which would have been clearly visible atop one of their loads;
Lino Lacedelli, ascending on July 30, 1954, above the eighth camp with the ‘Super K2’ on his backpack.
With this clarified, I reiterate what I wrote in 2018, namely that an overnight stay for four people in a single ‘Super K2’, whether planned by anyone at any time, was completely unfeasible.
Reinhold Messner (in the book “Walter Bonatti, il fratello che non sapevo di avere,” Mondadori 2013, page 170) writes that on K2 it would not have been possible to spend the night in a tent with four people because it was too small.
Lacedelli (L, 60, in a note) reports that the ‘Super K2’ of the ninth camp had the following dimensions: length 200 cm, front width 120 cm, back width 90 cm, height 75 cm, equivalent to that of a dining or study table. He clearly refers to the entrance at the front shown in the photo on page 21, stating that entering or exiting that tent was not like opening or closing a door, but required genuine contortions (B2, 223), further specifying that the tent was so low that it forced him and Compagnoni, bundled in heavy high-altitude clothing, to spend the night with their legs outside, and clarifying, as we have seen, that even to fit three people in there as best as one could, it would have been necessary to cut it (L, 60-61).
The idea that four climbers engaged at high altitudes could not only rest but even just enter together into the Moretti ‘Super K2’ is indeed impossible to consider, especially given the clothing necessary to withstand nighttime temperatures of forty below zero: two pairs of thick socks, high boots nearly up to the knee with a double lining including the outer layer made of reindeer leather, long underwear, flannel pants, down overpants, additional waterproof pants, wool shirt, flannel shirt, heavy sweater, down jacket, waterproof windbreaker, gloves, padded mittens, lambskin hat, according to the list provided by Compagnoni (C1, 186), not to mention the down sleeping bags with which the two men of the designated team for the final assault were equipped.
If, therefore, the members of that team and Bonatti and Mahdi’s support team had found themselves together at the ninth camp, they would have had to alternate two by two inside the only ‘Super K2’ present there throughout the night, thereby putting not only the safety of everyone at serious risk but also the efficiency of the team that was to lead the decisive assault on the unknown summit, more than half a kilometer of elevation above them, on a mountain that had demanded two months of effort from the entire expedition up to that point.
On the other hand, Bonatti’s assertion, made long after the expedition (B2, 75), that it would have been possible to spend the night as four, albeit a bit cramped, in the tent at the ninth camp is incorrect. In fact, the circumstance cited as proof of this assertion by Bonatti himself—that the tent used at the eighth camp on the evening of the 31st by him, Abram, and Gallotti, along with Compagnoni and Lacedelli just returned from the summit, was only “slightly larger” than the ‘Super K2’—is not accurate.
In reality, there were two Moretti tents at the eighth camp, the ‘Himalaya’ weighing 12 kilograms and the ‘K2’ weighing 9 kilograms, and it is highly probable that the five Italians slept together in the larger one since the other was meant to accommodate only the two porters. Both tents were, as the second photo on the following page shows, nearly as tall as a man.
The Mountain Museum in Turin, which houses one of the Moretti ‘Himalaya’ tents used by the expedition in 1954, has kindly provided the actual dimensions: 200 x 190 x 155 cm. Therefore, the tent that hosted the five Italian climbers on the night of July 31, while Isakhan and Mahdi occupied the other, was not only “slightly larger” than the ‘Super K2’ of the ninth camp, as Bonatti claims, but roughly double in size.
The error regarding the capacity of the Moretti ‘Super K2,’ also attributed to Bonatti, who insists on this in his books, appears all the more serious given that the tents, like all the materials, had been tested before the expedition departed, at least during the first “camping” on the western ridge of the Klein Matterhorn (“La conquista del K2,” cited, page 78).
The Moretti ‘Super K2’ tent: length two meters, height 75 centimeters, front width 120 centimeters, back width 90 centimeters.
The two Moretti tents, ‘Himalaya’ and ‘K2,’ at the eighth camp.
9. Mahdi is persuaded to ascend with a load of tanks toward the ninth camp by Bonatti, Abram, and Gallotti, who present him with the prospect of reaching the summit (B1, 74). The porter is equipped with high-altitude clothing obtained at the moment but keeps his own boots (B1, 74 and L, 61) because there is not an extra pair of the special double-layer reindeer fur boots provided to each Italian member of the expedition.
The departing team does not take the second ‘Super K2’ tent with them, which is reserved like the other for the summit attack (Desio, “La conquista del K2,” page 83) and which should also be at the eighth camp (ivi) under Lacedelli’s care as the tent custodian (L, 51), nor the down sleeping bags that were certainly available there (B1, 72), nor even a minimal supply of food (B2, 263).
Thus, Bonatti, Abram, and Mahdi leave the eighth camp at 15:30 (B1, 75)—not “a couple of hours” (B1, 83) but three and a half hours after arriving there at 12:00 (G, 105)—with only, in addition to their loads, a rope, a pair of carabiners, and the equipment for the tanks (B1, 74). They cross the upper edge of the ice wall at 16:30 (B1, 75) and continue toward the band of rocks along the path marked in the morning by Compagnoni and Lacedelli.
Leaving the eighth camp without sleeping bags and without drinks, Bonatti—despite mistakenly believing that he and Mahdi could enter Compagnoni and Lacedelli’s Super K2 tent and spend the night with them—must have known and certainly did know that he could not use equipment and supplies brought up by his companions and that, without using any, he would face unacceptable risks.
Therefore, moving without the minimum necessities to survive at that altitude and in those temperatures—for a total weight that would not have significantly increased the load for him and Mahdi, and which possibly, and perhaps partly, Abram could have borne—can only be interpreted, as mentioned, as his conscious or subconscious certainty of returning to the camp he was leaving before nightfall.
This certainty, however, makes the prolonged attempts, which Bonatti himself would soon undertake, to reach the lead team at all costs incomprehensible.
**The Ninth Camp and the Bivouac**
10. Meanwhile, Compagnoni and Lacedelli have surpassed the altitude of 7,950 meters on the upper part of the ‘shoulder,’ at which, according to Bonatti, it was agreed to place the ninth camp, without Lacedelli asking to stop there or at the other point he believed was ‘established,’ because Compagnoni, as noted, was convinced he should climb as high as possible and behaves consistently with this belief (C2, 145).
The two then continued almost to the entrance of the ‘bottleneck,’ the gully inclined at 45 degrees (as Ed Viesturs notes on page 82 of his cited “K2, La montagna più pericolosa della terra”), that is, up to about 8,100 meters.
Here, the exposure to potential collapses of the enormous overhanging serac and the possible avalanches from the ‘bottleneck,’ choked with fresh snow in which one sinks up to the chest (C2, 145), is evident. As a result, Compagnoni decides to move to the left, onto the rocky ridge outside of their fall line.
In the 2004 book, Lacedelli recalls having protested that traversing to the left would be more dangerous than stopping where they had arrived and that he followed Compagnoni, untying himself from the rope that held them together, only because Compagnoni insisted (C2, 145 and L, 57). It is not easy to believe him because if he had found the traverse so risky, he shouldn’t have unfastened himself, while the clarification (L, 57) that the episode took place at the point he considered ‘established’ for the ninth camp, that is at an altitude of 7,950 meters, certainly appears erroneous.
In fact, Bonatti’s indications (in the photo shown at the bottom of page 79 of his cited “Le mie montagne”) point out that the beginning of the traverse, and therefore the dispute about it, occurs a few meters below the bivouac site with Mahdi, thus around 8,100 meters.
In any case, Lacedelli’s objection only concerned the danger of the traverse and not the obligation to wait for Bonatti at a ‘designated’ point—in his book, as noted, he never claims to have asked Compagnoni to stop or to go to that point—so this obligation was not one that Lacedelli considered to exist.
Thus, all his insinuations regarding Compagnoni’s violation of the plan from the 29th fall away.
**The Pinnacle of K2 from the East:**
A (solid line): route of Compagnoni and Lacedelli
B (dotted line): route of Bonatti and Mahdi
C: location, at approximately 8,100 meters, of the bivouac of Bonatti and Mahdi
D: towards the location of the ninth camp on the rocky ridge
E: the ‘bottleneck’ gully, ‘E’ is at approximately 8,200 meters
F: traverse to the left beneath the serac
G: large serac
The routes and the location of the bivouac indicated by numbers A, B, and C are depicted as in the sketch from the photo on page 79 of Walter Bonatti’s book “Le mie montagne.”
As for the fact that the danger posed by the serac was an evident and sufficient reason for moving toward the rocky ridge, traversed by Fritz Wiessner during the U.S. attempt in 1939, Compagnoni writes that placing the ninth camp where he and Lacedelli had reached (i.e., at the beginning of the traverse to the left) would expose it to the risk of collapses from the threatening ice mountain looming above the gully (i.e., above the ‘bottleneck’), and that he and his companion therefore sought a safer place to spend the night by heading toward the ridge they saw on their left, outside the fall line of the serac, hoping, as it turned out, to be able to place the ‘Super K2’ there (C2, 145).
Lacedelli confirms the risk of collapses, even though, as noted, not in his 2004 book but in an interview with ‘Le Monde’ on August 29, 2001 (B2, 223): “When we arrived at the planned site to establish the ninth camp, it seemed very dangerous because it was exposed to the fall of seracs,” thereby asserting against himself (L, 61) that the ‘established’ location was at 8,100 meters.
Bonatti also confirms this, recalling that during the night and from the site of his bivouac (coinciding with the beginning of the traverse of Compagnoni and Lacedelli), he saw above him the shadow of a tremendous icefall, a real suspended threat from which even the smallest fragment could sweep him and Mahdi away in an instant (B2, 41). He repeats on page 43 of his book “I miei ricordi” (My Memories) from 2008, 2nd edition, that this place was exactly in the trajectory of potential collapses from the large serac.
The extreme danger of that entire area, evident in the photo from the previous page, has been tragically confirmed by the numerous fatal incidents caused by collapses of the overhanging serac during climbs following the Italian ‘first’ ascent of 1954. Therefore, not placing the ninth camp there, once the situation was closely observed, was for Compagnoni—who did not believe he was obliged to stop there according to the plan of the 29th—a necessary choice to safeguard his safety, that of Lacedelli, and the success of the endeavor.
On the other hand, Bonatti has claimed since 1985 that Compagnoni wanted to hide the ninth camp from him on July 30 or at least place it out of his reach because he feared being replaced by Bonatti in the final assault on the 31st.
The only ‘evidence’ presented by Bonatti to support this theory is the exhaustion he noticed in Compagnoni on the evening of the 29th and the statement, not reported or confirmed by the other three present, that Compagnoni supposedly addressed to him: “If tomorrow at the 9th camp you are in shape, it may be that you take the place of one of us two” (B1, 71).
On the evening of the 29th, Compagnoni and Lacedelli were indeed severely tested (G, 104) from having overcome the ice wall; in fact, Lacedelli was exhausted (L, 57). Bonatti may have genuinely been the most fit person despite being out of sorts the previous morning (B1, 84), and it’s possible that Compagnoni truly flattered him by suggesting his inclusion in the lead team to persuade him to take on the task of transporting the tanks, similar to how Bonatti later did with Mahdi, encouraging him with the illusion that he could reach the summit (B1, 74).
However, all of this does not prove that Compagnoni tried to hide from Bonatti the following day. In fact, while he was exhausted on the evening of the 29th, as were all after the exertions of the day, he was certainly not on the 30th when he ascended without issues 500 meters of elevation on deep snow and difficult plates with the materials for the ninth camp, nor when, on the 31st, he accomplished what was presumably a more demanding task of transporting the tanks over already established paths, which, in any case, would demonstrate a previous state of excellent fitness.
It is entirely illogical to suppose that on the 30th, when he was physically fit as noted above and with Bonatti likely out of the game after the “grueling mission” of transporting the tanks, Compagnoni would decide to lengthen and complicate the route to the summit, putting the success of the expedition at risk at the last moment, solely out of the fear of having to act on the vague hypothesis from the previous evening and not for serious and evident objective reasons.
The accounts given by the protagonists, set aside Bonatti’s speculations, indicate that Compagnoni ascended to 8,100 meters because he believed he needed to reach “as high as possible” and that he placed the ninth camp outside the climbing line to avoid potential collapses from the large serac: there is no proof—logical or otherwise—of any other intentions.
11. Proceeding to the left on the snow and ice slope and overcoming difficult plates (C2, 145), Compagnoni and Lacedelli arrive around 15:00 (C1, 183) at the rocky ridge, indicated by Desio as an alternative route to the summit (“La conquista del K2,” cited, page 144), about 100 meters in a straight line (B2, 75) from the start of the traverse, the site of Bonatti and Mahdi’s subsequent bivouac.
If they do not establish the camp before the ridge, it is presumably because in order to set up the ‘Super K2’ on the sloped terrain of approximately 40/45 degrees, they would need to move about one and a half cubic meters of snow and ice, an impossible task when (C2, 145) the lack of oxygen prevents them from delivering more than two blows of the ice axe in succession.
On the rocky ridge, they find a small saddle capable of accommodating the tent, which they set up with slow and exhausting work (C2, 145). This is a very precarious location, not flat but slightly sloped (L, 57), yet it is the only feasible spot for the last camp, and once they finish pitching it, Compagnoni and Lacedelli enter the ‘Super K2’ to take shelter from the evening cold.
12. Meanwhile, Bonatti, Abram, and Mahdi have ascended the slope of the ‘shoulder,’ and upon calling them, received instructions from Compagnoni and Lacedelli to follow their tracks, which they do (B1, 75-76) until they reach the area Bonatti believes to be that, at about 7,950 meters, agreed upon for the ninth camp (B2, schematic on page 87).
Here, Abram feels the onset of frostbite in one foot and, after alleviating it with a massage, leaves his companions around 18:30 to return to the eighth camp (B1, 77). Bonatti and Mahdi continue to follow the tracks up the steep slope until almost reaching the entrance of the ‘bottleneck,’ repeatedly calling out to the two lead climbers but receiving no responses, thus failing to understand where their tent is located.
Before twilight begins, around 19:30 (the ephemeris for July 31, reported by Bonatti in B2, 71, indicates dawn from 3:47 to 4:20, sunrise at 4:54, sunset at 19:05, twilight from 19:39 to 20:12, followed by night), Mahdi begins to moan from the cold and to show signs of nervousness (B1, 77), yet continues to climb with Bonatti almost to the base of the ‘bottleneck’ (B1, 78), around 8,100 meters (B1, 79, photo 2). From there, the two call out “increasingly anguished” and “desperate” cries that still go unanswered. Mahdi then begins to shout frantically; hoping that the tent is behind a boulder fifty meters higher, Bonatti frees himself from the tank load and reaches him, only to find semi-erased tracks in the snow that slant obliquely to the left (B1, 80).
The disappointment causes him to go into shock (ivi), and after collapsing in the snow, he takes a long time to recover (ivi); when he gets back up, certainly after 20:12 (B1, 80, compared with B2, 71), as it is now completely dark, he finds he cannot use his flashlight, possibly drained from the cold since it had been kept in an outer pocket (B1, 80).
Returning to the porter, who is meanwhile letting out impressive shouts, Bonatti sees in terror Mahdi staggering up and down the steep slope, swaying as if out of his mind, not falling only because, like him, he is sinking into the snow (B1, 81). Believing it impossible to descend to the eighth camp because Mahdi would surely tumble down and he wouldn’t be able to hold him, Bonatti “instinctively” begins to cut a step into the slope (B1, 81) while, in the grip of a “terrifying crisis,” he shouts, “No, I don’t want to die! I must not die! Lino, Achille, you must hear us! Help us! Damn it!” (B1, 82).
When he finally manages to overcome the crisis, he realizes he has dug a step one meter by sixty centimeters, enough for the two of them to huddle together (ivi). Mahdi, who has since calmed down, welcomes the prospect of sitting with him (ivi).
Although now resigned to spending the night exposed to the elements, Bonatti continues to call for his companions, and when at around 21:30 a light finally comes on in the crest to the left beneath the large band of rocks, he signals his presence and asks why there has been no response until then (ivi).
The chapter summarizes the events according to Bonatti’s account alone, as Mahdi, when interviewed in Pakistan, does not mention scenes like those described (B2, 61-65). It should be noted, however, that Bonatti’s first question, after hours of searching, was about the silence of the last few hours and not about the relocation of the ninth camp, as would have been natural had he considered it ‘arbitrary’ at that time.
13. The subsequent dialogue at a distance, disturbed by the wind on the ridge where the tent was (L, 59), has reached us in three partially different versions. Compagnoni in 1958 recounts that by nightfall, he and Lacedelli heard shouts from inside the tent, and after struggling to get out and recognizing Bonatti’s voice, they shouted back for him to come back and leave the tanks because the traverse would be too dangerous, and in response to “Don’t worry about me!” they reassured themselves, thinking that their companion and the porter would return to the eighth camp along the ascent trail (C2, 146). In contrast, Bonatti recalls in 1961 that when he asked for clarification on why they were only responding then, Lacedelli replied that they couldn’t freeze outside the tent waiting for him (B2, 39). Lacedelli, after asking him in turn whether he had oxygen with him, told him to leave it there and go back down. Finally, Bonatti explained that there would be no issues for him, but that Mahdi was out of his mind (B1, 82–83).
In 2004, Lacedelli, confirming that only he spoke with Bonatti, writes that Bonatti asked for light to ascend, to which he responded not to try because it would be dangerous and to instead return to the eighth camp, leaving the tanks behind (L, 58). Furthermore, when Bonatti clarified that he could do it for himself, “but it’s for Mahdi,” he thought that his companion feared he wouldn’t be able to reason with the porter and, perhaps contradictorily, that he would be able to bring him down. Therefore, he said goodbye, turned off the flashlight, and, upon returning to the tent, told Compagnoni, who approved, that he had advised Bonatti to descend (L, 59).
The accounts from the protagonists of the dialogue are complemented by Gallotti’s recollection in his Diary on July 31, in which Bonatti, having returned to the eighth camp that morning, reported that “last night he and Mahdi had arrived a short distance from Achille and Lino’s tent around 22:00. They shouted upwards to be guided to the tent in the now fallen darkness, but, although they were heard, the words got lost, and due to a misunderstanding, it was not possible…” (G, 106).
14. With the flashlight going out, Mahdi is struck by a second crisis, and after yelling at Compagnoni and Lacedelli, he tries twice to descend toward the eighth camp, being held back by Bonatti, who once again convinces him to sit next to him (B1, 83). After waiting in vain for the companions to reappear, and calling them again without success, Bonatti prepares to bivouac in the open air with Mahdi at 8,100 meters, in the freezing night which, completely clear, worsened after a few hours with a sudden snowstorm that calmed only shortly before dawn (B1, 83–85).
The last three chapters provide the data and allow for the following observations.
On July 30, Bonatti reached, with Mahdi, around 18:30, ascending 300 meters of elevation over three hours on the trails of his companions, the point on the “shoulder” of K2, at 7,950 meters, where he believed that according to the plan from the previous evening, Compagnoni and Lacedelli were supposed to set up the ninth camp. Since they were not there, he continued to climb on their trails, searching for them and calling out for another 200 meters, in the light of the sunset for more than an hour and a half, and then in darkness after 20:12, until he reached the base of the “bottleneck” at approximately 8,100 meters, finally receiving a response around 21:30. (B2,87).
The plan agreed upon a few hours earlier with Abram and Gallotti (G, 105) also stipulated that he would return to the eighth camp if he was unable to reach the companions. This required him to identify the moment when descending would become necessary to avoid the risks of cold and darkness.
Such an evaluation was, in any case, imposed on Bonatti by his role as the team leader of a porter who, however capable, was not considered to be on par with the Italian climbers, all of whom were highly experienced. Their safety was entirely entrusted to him, and he knew that Mahdi lacked suitable footwear for the cold at that altitude, especially since just before, Abram, despite being appropriately equipped, had complained of the onset of frostbite in his feet.
Bonatti should have therefore timely assessed the opportunity to descend and, in any case, certainly should have descended when Mahdi began to complain about the cold at 19:30 or, at the latest, when the porter started to scream frantically around 20:00, as can be inferred from his 1961 book, because up until that point, according to the cited ephemerides, it was feasible to do so safely since twilight and then darkness had not yet begun.
Instead, according to his own account, he did not consider this necessity at any moment before the darkness complicated the descent or, according to his judgment, made it impossible altogether. The scenes of desperation that Bonatti recounts himself succumbing to upon realizing that the ninth camp was not even at 8,100 meters, unusual for such a strong-willed climber as he was, certainly did not alleviate, and likely exacerbated, the porter’s state of confusion due to the concrete impossibility of verbal communication (one spoke only Italian, the other only Urdu, B2, 64). The porter was used to considering the expedition climbers as superior experts and reliable, whose distress could only characterize a situation of extreme mortal danger.
Regarding the contact finally established around 21:30 on July 30, Compagnoni and Lacedelli— or rather only the latter, as he was the only one to exchange the few shouted phrases into the wind noted by both—might have had to and should have tried to better understand the difficult situation of Bonatti and Mahdi and sought to alleviate it in some way.
However, it should be noted that at that point, in order to bring them up at night along the dangerous traverse, Compagnoni and Lacedelli would first have had to reach them and then guide them to the tent while running unacceptable risks of accidents and frostbite. These operations, along with the necessity to share not only the ‘Super K2’ but also the sleeping bags with them until morning, would have exhausted everyone, making the final leap practically impossible.
It is also worth noting that Lacedelli’s concluding belief, shared by Compagnoni, that Bonatti and Mahdi could reach the eighth camp even at night, was justified by the following facts, even if it was not sufficiently discussed with Bonatti himself:
– The route between the location where Bonatti was with Mahdi and the eighth camp traversed a slope of deep but compacted snow, inclined at no more than 40-45 degrees for the first 200 meters, where the ascent tracks of four climbers were presumably still visible, at least in sections, under the light of the moon and stars in the completely clear sky. This was a slope where, although Compagnoni and Lacedelli did not know it, Mahdi had not fallen despite his antics, and the same porter would traverse it alone and without issues at dawn the following day, just as they would return down that same slope on the 31st in the dark after summiting;
– Bonatti, as Compagnoni and Lacedelli knew, was an exceptionally capable climber, accustomed to managing less skilled second climbers, and it was reasonable to presume that he would not have difficulty bringing a somewhat agitated porter down even in the dark—who, after all, was eager to descend—using the usual rope maneuvers on a 200-meter slope free of particular obstacles;
– This was also because Mahdi, as Compagnoni and Lacedelli likely knew, was not a novice but rather a man described by Bonatti as formidable, the best of the Hunza porters, and the only one among them to be considered on par with the best Nepalese sherpas (B1, 74).
It is therefore unlikely that Compagnoni and Lacedelli had doubts about the possibility of Bonatti returning with him to the eighth camp once their difficult and far too brief dialogue concluded.
**The Summit**
15. At dawn on July 31, Mahdi descends alone to the eighth camp, arriving with extremities affected by frostbite (G, 105): he would later undergo severe amputations, resulting in significant disability, which would provoke an outpouring of anti-Italian sentiment in the Pakistani public opinion. Bonatti descends shortly thereafter, arriving at the eighth camp in entirely sound condition (G, 106).
16. On the morning of July 31, Compagnoni and Lacedelli leave the ninth camp, descending to the tanks that Bonatti had carefully made visible on the slope by clearing them of the night snow. They leave their backpacks with the now-useless gear at the site, which they will collect on their return (C1, 186), don their harnesses, and utilizing supplemental oxygen, they tackle the ‘bottleneck,’ first climbing along the difficult rocks to their left and then entering the snow-choked gully.
They often sink to their waists both there and in the exposed traverse beneath the large serac and along the subsequent steep slopes: “The snow,” recounts Compagnoni, “an unexpectedly enormous blanket of snow, provided no grip under our feet. We had to pull it beneath us with our arms, then climb on top of it with our knees and try to pack it down. But it was like trying to compress sugar or sand… I was sinking to my waist, and with my right shoulder, I grazed the snow above me… we found ourselves suspended over the brink without either of us securing the other, relying on a nearly vertical sheet of snow that could give way at any moment” (C2, 148-149).
The two reach a small ridge to their left, then encounter increasingly harder snow mounds, and by 18:00, they stand on the summit of K2. After half an hour of photos and filming, they leave the empty tanks at the summit and descend first into twilight and then into the night along the perilous ascent route, reaching the eighth camp at 23:00.
Subsequent ascents, some of which ended in tragedy on the ‘bottleneck’ or along the traverse beneath the great serac, whether ascending or descending from the summit, will highlight the exceptional skill and incredible luck of the victorious Italian team on K2 in 1954.
**The Return**
17. On August 1, Abram, Bonatti, Compagnoni, Gallotti, and Lacedelli descend from the eighth to the fourth camp, at 6,450 meters, where they spend the night. From there, while the other members of the expedition are also descending, Abram, Compagnoni, and Lacedelli return directly to base camp on August 2, where on the 3rd, Bonatti and Gallotti join them after one last night spent at camp one.
The movements of the Italian climbers throughout the month of July 1954 along the nine camps of the Abruzzi spur are detailed in the accurate graphic by Mario Fantin found in his book “K2 Sogno vissuto.”
18. After the long descent from the mountain, Compagnoni returns by plane from Karachi along with Rey, Fantin, and Dr. Pagani, while all the other climbers embark on September 10th on the ship ‘Asia,’ which takes them to Genoa, where they are welcomed by an enthusiastic crowd of citizens elated by their victory. The Italian success, where the American expeditions had repeatedly failed, positively impacts the country’s international image, providing strength on the path to reconstruction.
19. Neither during the descent of the Abruzzi spur, nor in the days of the return from the mountain and back to their homeland, nor in the following years after the expedition is there any documented controversy among the Italian climbers regarding each other’s behavior during the ascent of K2.
In particular, it does not appear that Bonatti and/or Lacedelli contested Compagnoni’s decisions at that time, or noted for themselves or reported to others the criticisms and suspicions about his choices that they later raised against him.
In fact, before 1958 or 1961, as will be seen later, no document refers to conflicts or controversies among the expedition climbers regarding their mutual behavior during the ascent or on the return.
However, there are also positive elements of proof of a climate of cordiality and friendship among them after the victory. In this regard, Lacedelli states that upon returning to base camp all the Italians were euphoric and happy (L, 77), as well as the pages of the book “Tutti gli uomini del K2” by Mirella Tenderini (Corbaccio 2014), cited in the Gogna Blog on July 7, 2014, which describe the atmosphere of great camaraderie among the climbers on the ship that took them back to Italy, concluding that there was perfect understanding among them and that they celebrated their victory as friends.
This situation is evidenced by the group photo shown on the following page, taken on the ‘Asia’ ship of Lloyd Triestino in September 1954. It is Bonatti himself who confirms this
atmosphere in the interview that appeared on November 18, 1954, in the magazine “Settimo giorno”: “I must say that there was never the slightest divergence of opinions among us, and everyone exerted themselves to the limit of their energy, without holding back. In different conditions, we would not have achieved anything.”
On the ‘Asia’, September 1954: Walter Bonatti is the second from the bottom, with Abram and Gallotti above him, and Lacedelli is the man in the center at the top.
His claim to have understood already on K2 (B1, 87, penultimate paragraph, and even more so B2, 46, last paragraph) that Compagnoni and Lacedelli had played a bad trick on him appears unreliable.
Lacedelli, contradicting himself again (see above L, 77), recounts in 2004 (L, 62) that upon returning to the eighth camp at eleven o’clock at night on the 31st, after summiting, he was very upset, that he apologized to Bonatti explaining that he would have liked to stop there (i.e., at the ‘established’ point) but that Compagnoni had not wanted to, and that Bonatti replied not to be upset with him but with Compagnoni.
This recollection, which comes half a century later, is rendered unreliable by the circumstance that the dialogue between the two, in a tent where five men were piled on top of each other, was not heard by anyone, and also that Bonatti, who had already written in 1961 that that very night and at that hour five hearts rejoiced together (B1, 87), never confirmed it, which he would have certainly done, given that it supported his accusations if it had contained even a shred of truth.
But equally unreliable appears to be the excuse offered by Bonatti to Aldo Cazzullo, as reported in *Corriere della Sera* on December 13, 2021, for not having reported Compagnoni at the time because Desio had imposed silence: certainly not for him, who contested both the subsequent report and the official film and freely gave the aforementioned interview to *Settimo giorno*, and in any case, not during the years from 1954 to 1961.
**The Controversy**
20. The expedition leader Desio published in 1954 the book *La conquista del K2*, which includes the report on “L’assalto alla vetta” written and signed in the first person by Compagnoni and Lacedelli, and notably lacks any critical notes on Bonatti’s movements and choices on July 30.
Bonatti contests Desio’s report, endorsed by the Alpine Club, and the official film for not giving proper credit to his effort in bringing oxygen to the lead team for the final push, but without, as far as is known, making any criticisms of the two summit climbers: the protest leads to some marginal modifications of the film but does not persuade either Desio or the CAI to change the official account.
In 1955, Bonatti persists with a letter signed by almost all expedition members but to no avail. In 1958, Compagnoni publishes the book *Uomini sul K2*, confirming the report to Desio but stating this time that Bonatti “together with Mahdi, preferred to spend the night there, digging a hole in the snow and exposing themselves to a risk greater than that represented by the descent to the eighth camp.”
In the chapter “K2 – Gli ultimi campi” of the book *Le mie montagne* published in 1961, Bonatti criticizes Compagnoni and Lacedelli for having placed the ninth camp on July 30 in a location different from that agreed upon the evening of the 29th, and states that this forced him and Mahdi to bivouac, thus not by his ‘preference’ compared to returning to the eighth camp.
In 1964, journalist Nino Giglio insinuates in the *Nuova Gazzetta del popolo* of Turin that Bonatti used part of the oxygen intended for the two summit climbers during the bivouac, but when sued for defamation, he is forced to retract.
Moreover, until proven otherwise, it cannot be assumed that it was Compagnoni who suggested that insinuation because:
– Bonatti sued Giglio and the newspaper, not Compagnoni;
– Giglio’s vague statement that he was inspired by Compagnoni’s accounts does not imply that Compagnoni proposed the suspicion; if anything, the opposite is true;
– it is not plausible that Compagnoni suggested an insinuation to Giglio that he knew would be easily dismantled by Bonatti simply by noting that the masks with the mixers, essential for using the oxygen contained in the tanks, were in the backpacks of the members of the lead team;
21. In the book *Processo al K2* published in 1985 and later in *K2 – La verità – Storia di un caso*, Bonatti continues to insist, in the second edition (Baldini-Castoldi-Dalai publisher, 4th edition of 2004), quoting (on page 148) and endorsing (on page 10) the concluding remarks of Australian trekker Robert Marshall: Compagnoni did not change the location for the ninth camp solely due to the risk of avalanches but also to put Bonatti in a position where he could not reach it, and together with Lacedelli, he did not respond to his companion’s calls, abandoning him to his fate.
In the same book, Bonatti also accuses Compagnoni and Lacedelli of having lied about the end of the oxygen supply, which, according to his calculations, remained available until the summit. While the dispute continues in mountaineering circles and in the media around the world, Bonatti reinforces the accusations in other writings, garnering support from public opinion not only among climbers and not only in Italy, until in 2004, the 50th anniversary of the ascent, Lacedelli publishes, together with journalist Cenacchi, the book *K2, il prezzo della conquista*.
In it, while also insisting on the end of the oxygen before the summit, the Ampezzo climber states that he too had suspected at the time, without being certain (“it’s my idea,” L, 57) and without ever confronting his summit companion, that Compagnoni had moved the ninth camp from the ‘established’ location so as not to be reached and replaced by Bonatti.
Just before this, the commission of the ‘Three Sages’ appointed by the Alpine Club—beyond any statutory provisions of the Club itself—and consisting of Fosco Maraini, Alberto Monticone, and Luigi Zanzi, examined the matter, concluding that the ninth camp was indeed arbitrarily moved to a point unreachable by Bonatti, that he was forced to bivouac in the open air with Mahdi due to an inexplicable lack of communication, and that Compagnoni and Lacedelli used oxygen all the way to the summit, contrary to what they had claimed.
These conclusions, shared on May 22, 2004, by the Central Council of the Alpine Club and published in the book released by the CAI in 2007, *K2, una storia finita*, do not fully satisfy Bonatti but essentially confirm the accusations he made against his companions that they hid to avoid being reached, that they exposed him to the mortal risk of bivouacking above 8,000 meters, and that they lied about the availability of supplemental oxygen.
Journalists, essayists, and writers from Italy and abroad, climbers and non-climbers alike, have intervened in the controversy, overwhelmingly initially supporting Bonatti’s version and then the report of the Three Sages and the aforementioned condemnation of Compagnoni and Lacedelli by the Alpine Club.
One of the rare exceptions is represented by the English journalist and documentarian Mike Conefrey, who in his 2015 book *Ghosts of K2*, published in Italy in 2016 under the anonymous title *Sulla vetta del mondo*, absolves Compagnoni and Lacedelli from the accusation of having lied about the end of the oxygen supply, providing a thorough analysis of the historiographical data and summit images.
Conefrey concludes by acknowledging that the members of the 1954 Italian expedition moved on K2 to the maximum of each one’s capabilities and observes that the events of the final assault took place at an altitude, around eight thousand meters, characteristic of the Himalayan giants, where it is easy to make mistakes and derail any plan, no matter how detailed, during the action, and from which often unclear memories are reported.
The summary chronicle presented in the last two chapters confirms that, as mentioned earlier, the controversy did not arise in the ‘last camps’ of K2 or during the ascent, the return to Italy, or immediately after, but was initiated and then gradually expanded starting in 1958 if one wishes to trace its beginnings to that year, from 1961 onwards, and even more so from 1985 if to the other.
Regarding the reasons that those who were protagonists and victims of this controversy may have had for raising and emphasizing it, we can only make conjectures that are no longer verifiable today.
It remains that taking a stance against some of them, and not in favor of all, which is a sign of a provincialism one would not expect from the Three Sages and the Alpine Club, is, from any perspective, a monumental error.
**Conclusions**
The agreement between the accounts of Compagnoni and Gallotti on the point of climbing “as high as possible,” the uncertainties and contradictions in the late account presented by Lacedelli to support the thesis that the plan of July 29 included placing the ninth camp at an “established” point on the upper part of the K2 shoulder, the existence of evident objective reasons for placing it on the rocky ridge as it was out of the fall line of the serac above the ‘bottleneck,’ and the circumstance that the accusations against Compagnoni of violating the agreed-upon plans are not in any way contested or documented during or immediately after the expedition or in the subsequent years, highlight the inconsistency of the accusations themselves and their contrived nature by Bonatti starting from the book *Le mie montagne*, with Lacedelli only joining in when the condemnation of his summit companion was already certain and in a desperate attempt to avoid it for himself.
The harsh censure issued in 2004 by the Alpine Club against the two members of the team that ascended K2, based on a partial examination of the facts and taken without hearing any of the parties directly involved who were all still alive at the time, and decided without even allowing the accused to defend themselves, should be urgently reviewed.
The hypothesis put forward above regarding a misunderstanding about the content and obligations arising for its creators from the plan of July 29 can help explain Bonatti’s assertion, who, reinterpreting his understanding of that plan since 1961, felt betrayed, and his accusations against the two who reached the summit without him, particularly the harshness towards Compagnoni.
This is despite the severe damage that proposing, refining, and insisting on these accusations for decades has caused to the image of the expedition and Italian mountaineering worldwide.
Even considering his subjective interpretation of the agreements of July 29, and adopting the perspective of culpability embraced by the CAI, which, though I would prefer not to, I deem necessary to achieve the purpose I will outline later, it remains to be asked why Bonatti, an exceptional climber and mountain guide in that same 1954, engaged in the following behaviors, resulting from the accounts of the protagonists, including himself, which seem very difficult to regard as anything but erroneous:
– On July 30, at the eighth camp, along with Abram and Gallotti, to expect that it would be possible to use the tiny ‘Super K2’ tent of Compagnoni and Lacedelli for the overnight stay of four climbers at the ninth camp, which was barely sufficient for two, or to possibly alternate in it until the morning, without running heavy and unacceptable risks to personal safety and to the success of the final ascent the following day;
– To move at 15:30 on the same July 30 with Abram and Mahdi from the eighth camp toward the ninth, intending to overnight there with the porter, without at least taking two down sleeping bags;
– Not to return to the eighth camp at the first complaints from Mahdi about the cold, knowing that he lacked suitable footwear for the cold that had already affected Abram despite his protection, or at least before darkness made the descent problematic or, according to his judgment, too risky under the given subjective and objective conditions;
– To appear to Mahdi as anguished, desperate, panicked, and angry at his companions, perhaps provoking and certainly increasing the porter’s nervousness;
– To insist years after the return of the expedition on the possibility of an overnight stay for four in the ‘Super K2’ at the ninth camp, describing it as “only a little” smaller than the tents in use at the eighth, without checking its actual dimensions as he easily could have, and using this erroneous perspective to argue the accusations against Compagnoni and Lacedelli.
I clarify that the purpose of these lines is not to reach negative judgments about the great climber or the man Bonatti but to restore to Compagnoni the dignity that Bonatti himself was unwilling to acknowledge and that others have denied him by condemning him without evidence, from couches no less comfortable than my own, as the author of a disgraceful and potentially lethal scheme against those who had then collaborated with great effort for the success of the expedition—with remarkable generosity. Unfortunately contradicted by subsequent behaviors. I realize that to reach this point, one must, and I do not like it at all, disturb the shadows of people who can no longer respond, but the stakes require overcoming this scruple.
Freed from the mud that has been poured over it for too long and from too many sides, the first ascent of K2 can indeed return to being what it was on the ground—a splendid achievement of Italian mountaineering.
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