K2 UNA STORIA NON ANCORA FINITA DA RACCONTARE

L’indagine storica anche se è condotta con metodo, onestà e consapevolezza critica quasi sempre non la si può pretendere conclusiva, ma piuttosto procede come in una marcia di avvicinamento  verso quella che potrebbe essere definita una verità storica. Una marcia che può diventare difficile perché interrotta da ostacoli e deviazioni. Il lungo tempo trascorso dai fatti è uno di questi ostacoli ai quali si può aggiungere, nel nostro caso, la superficialità e il partito preso di presunti “saggi”, delle loro tesi “conclusive” e delle condanne senza appello contenute in “K2 Una storia finita” edito da Priuli e Verlucca nel 2008 e patrocinato dal CAI.

La storia delle vicende del K2 è un esempio della difficoltà a giungere a una corretta narrazione basata esclusivamente sui fatti documentati, Ritengo perciò che sia un contributo positivo l’analisi compiuta da Francesco Saladini e che  sia meritevole di essere più conosciuta. Pubblicata in un suo libro nel 2022, viene qui riproposta col permesso dell’Autore. (A. R.)

 

Testo scaricabile al seguente link:

Saladini K2, vittoria pulita

 

 

FRANCESCO SALADINI

K2, VITTORIA PULITA

Condividendo le accuse di Walter Bonatti e il parere dei cosiddetti Tre Saggi, nel 2004 il Club alpino ha decretato che il solo Ottomila italiano era stato salito cinquant’anni prima da due mascalzoni. 

Un’altra verità è però possibile e anzi provata da questo documento, una verità che nulla toglie all’impegno di Bonatti sul terreno ma restituisce dignità ai due della cima, all’intera spedizione Desio e al nostro alpinismo.

 

Compendio

      1.  Sono fondate le accuse di Bonatti a Compagnoni d’avere spostato l’ultimo campo della spedizione al K2 in un luogo diverso da quello concordato per non farsi raggiungere, questa condivisa poi da Lacedelli, d’averlo abbandonato scientemente al bivacco all’addiaccio e d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno?

          No. Per nessuna di queste accuse è stata fornita da chi doveva darla una anche minima prova oggettiva, tutte sono solo illazioni arbitrarie e sospetti basati su indizi incerti e contraddetti dai fatti e dalle situazioni reali. 

       2. Quelle accuse furono contestate a Compagnoni, o esposte ad altri, nell’immediatezza dei fatti cui si riferiscono?

            No. Non ci furono contestazioni o contrasti tra gli scalatori della spedizione, né subito dopo la cima né lungo la discesa dello Sperone, né lasciando la montagna né durante il viaggio di ritorno e neppure per molti anni dopo il rientro.

       3. Perché dunque Bonatti solo dopo il 1960 e Lacedelli mezzo secolo più tardi avrebbero lanciato quelle accuse?

            La sola plausibile spiegazione del  ‘pentimento’ fuori tempo massimo di Lacedelli sembra l’intento  di separare la propria sorte da quella ormai decisa per Compagnoni, mentre per Bonatti le diverse possibili ipotesi, come ad esempio l’esigenza di scaricare su altri la responsabilità per i congelamenti di Mahdi o dopo il 1964 il risentimento per l’insinuazione di Giglio attribuita a Compagnoni, avrebbero dovuto richiamare l’attenzione dei Tre Saggi, se la loro ricerca della ‘verità storica’ non fosse stata a senso unico. Oggi di certo c’è solo che quei sospetti non nacquero nel 1954 e sul K2 ma a tavolino e anni o decenni dopo, ciò che dovrebbe bastare a svelarne l’inconsistenza.  

      4. E’ vero, in particolare, che Compagnoni violò il piano per l’assalto finale salendo troppo in alto?

          No. Nel concordare quel piano i quattro dell’ottavo campo e cioè Compagnoni, Gallotti, Lacedelli e Bonatti, non si intesero sul ‘fin dove’ dovesse salire la cordata di punta: per Compagnoni ‘il più in alto possibile’, per Bonatti ‘il più sotto possibile’, per Lacedelli fino a un punto ‘stabilito’ che egli però non precisa e sul quale allora non chiese a Compagnoni di fermarsi, mentre Gallotti conferma alla lettera l’interpretazione di Compagnoni. Questi, indicato da Desio e confermato dai compagni come capo della cordata di punta, salì il giorno seguente fin dove poté perché così aveva capito (e con lui Gallotti) di dover fare.

      5. Perché Compagnoni, arrivato con Lacedelli a 8100 metri, deviò andando a porre il nono campo fuori della linea di salita?

          Non certo per nascondersi, visto che Bonatti e Gallotti, che Compagnoni al momento della deviazione non sapeva sostituto da Mahdi, erano alpinisti in grado di raggiungerlo ovunque, ma per non esporre il nono campo alle possibili slavine dal ‘collo di bottiglia’ intasato di neve e ai crolli del grande seracco più volte letali nelle ripetizioni.

      6. Anche se mancano prove in merito, è però plausibile che Compagnoni e Lacedelli abbiano inventato la menzogna della fine dell’ossigeno prima dalla cima?

           No. Non c’era alcun motivo per una bugia che non avrebbe aggiunto gloria alla conquista, perché non usare l’ossigeno era all’epoca considerato non un vanto ma un errore pericoloso peraltro proibito da Desio; ed è assurdo ipotizzare che nella proibitiva discesa notturna potessero accordarsi su di essa due persone tanto diverse per età, provenienza, esperienze e senso di responsabilità.

      7. Compagnoni e Lacedelli potevano e quindi dovevano portare aiuto a Bonatti e Mahdi onde evitargli il bivacco all’addiaccio?

           Non potevano finché c’era luce se non esponendosi al gelo della sera all’esterno della minuscola tendina del nono campo, né una volta sopraggiunto il buio per le difficoltà offerte dal tratto che li separava.   

           Ma neppure dovevano, perché Bonatti non chiese espressamente aiuto e non chiarì che Mahdi fosse fuori di sé, mentre non era pensabile  che uno scalatore del suo calibro non riuscisse a far scendere anche a notte, ma con cielo perfettamente sereno, il più capace dei portatori assicurandolo con le usuali manovre di corda  e sulle tracce di salita di quattro persone lungo un pendio a 40-45 gradi di 200 metri di neve fonda (che lo stesso portatore percorse poi da solo e senza problemi all’alba del mattino seguente). 

      8. Ammettendo però che dalla frase di Bonatti “è per Mahdi“, e comunque per l’ora ormai tarda, si dovesse capire che egli non riteneva di poter scendere col portatore, è responsabile anche Compagnoni per non essersi allertato?

           No. Compagnoni restò dentro la tenda, probabilmente sentì Lacedelli urlare a Bonatti di lasciare l’ossigeno e scendere ma non l’ultima frase, e fu comunque rassicurato dal compagno una volta rientrato. La sua mente era di certo occupata dall’ansia per la salita del giorno dopo e non sembra lecito accusarlo dal divano di casa per non aver pensato che ci fossero problemi, non essere uscito per riprendere il dialogo con Bonatti e non essersi dedicato a un soccorso che avrebbe probabilmente comportato il fallimento della spedizione dopo due mesi d’impegno e la morte d’un compagno sullo sperone Abruzzi, con la cima a portata di mano.

       9.  Hanno dunque sbagliato i Tre Saggi?

            La loro ‘indagine’ non considera la testimonianza di Gallotti sul punto fondamentale dello ‘spostamento’ del nono campo, né l’obiettiva pericolosità di pernottare sulla linea di caduta del gande seracco, né la concreta impossibilità per Compagnoni e Lacedelli di portare aiuto a Bonatti e Mahdi nelle condizioni estreme del momento, né l’estraneità di Compagnoni al dialogo tra Lacedelli e Bonatti, mentre per la supposta menzogna sulla fine dell’ossigeno non tiene conto delle pesantissime difficoltà all’inizio della salita, che in vetta c’erano sui basti due bombole e non tre e che mancava ogni motivo e la stessa possibilità oggettiva  per la costruzione d’una menzogna come quella, 

            Ma prima ancora la loro ‘indagine’ è inattendibile perché non furono sentiti sui punti nodali della questione i protagonisti, tutti ancora in vita nel 2004, e per il rifiuto di ascoltare Compagnoni, seguendo in questo Bonatti che aveva più volte respinto le sue richieste di confronto.

            I Tre Saggi decisero sotto la pressione dell’opinione pubblica sollecitata da Bonatti in centinaia di articoli, interviste, conferenze e libri contro Compagnoni e perché incaricati dal CAI d’accertare una verità diversa da quella di Desio, che poteva essere solo la verità di Bonatti. La sentenza era già scritta quando il CAI avviò l’iter che avrebbe portato al loro incarico. 

      10. Ma oggi non è tardi per occuparci di fatti tanto vecchi?

             No, perché i decenni di polemica hanno partorito l’infamia per i due uomini della vetta e per la stessa impresa del 1954 e perché se questa conclusione è sbagliata si può ancora e allora si deve modificarla non solo per la loro memoria ma per ripulire l’immagine del Club alpino e dell’alpinismo italiano. 

                                                    Preambolo

     La vittoria della spedizione alpinistica italiana del 1954 sul K2 è stata offuscata dalle accuse – di violazione dei patti concordati e poi di menzogna sulla fine dell’ossigeno supplementare – che Walter Bonatti ha lanciato contro Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i due uomini della vetta, e ripetuto per decenni sino a ottenere nel 2004 dal Club alpino italiano la loro condanna come traditori e bugiardi.

     Giustamente?     

     In realtà è ancora da scrivere, sulle vicende dell’assalto finale alla cima del K2, un racconto basato sull’esame analitico delle testimonianze dei protagonisti e non invece sui sospetti e sulle illazioni che hanno indotto Bonatti ad avviare e nutrire le sue accuse.

     In particolare nessuno dei protagonisti delle dette vicende, come nessuno dei loro commentatori, ha mai provveduto a ricostruire, raccogliendo con rigore e completezza le voci dei primi quali risultano dai loro scritti, gli accordi presi al campo ottavo sulle modalità dell’ultimo assalto.

     Si è giunti così a dare per assodate circostanze determinanti, come e soprattutto che gli scalatori presenti in quel campo la sera del 29 luglio avessero previsto di pernottare la notte successiva in un punto e a una quota precisi sulla parte alta della ‘spalla’ del K2, peraltro da lì non visibile, e in quattro dentro una tendina d’alta quota in grado però d’accoglierne al massimo due, senza accertare se una previsione del genere fosse plausibile al momento e da chi e quando e sulla base di quali dati e in quali termini operativi fosse stata presa.

     Ciò ha portato ad apprezzare o condannare il comportamento dell’uno o dell’altro senza confrontarlo con la fonte dalla quale derivava, perché questa fonte non era stata indagata, o non con rigore e completezza.

     Peraltro indagarla – e quindi valutare correttamente la congruità dei singoli comportamenti – è ancora possibile a partire dagli scritti lasciati dai protagonisti di quegli accordi.

     E’ ciò che tento di fare nelle pagine che seguono fornendo anzitutto un elenco critico delle fonti consultate in ordine alle diverse e spesso contrastanti posizioni espresse dai protagonisti,  

     proponendo poi un mio acconto degli ultimi giorni della prima ascensione del K2 che riporta le posizioni ritenute corrette e i motivi della mia scelta nonché i momenti essenziali della polemica che ne è seguita

     e tirando infine le somme nelle conclusioni.    

 

    In particolare il racconto è presentato con un carattere tipografico diverso (Arial) rispetto a quello altrimenti usato (Georgia), si snoda in capitoli numerati ciascuno dei quali si riferisce a un momento saliente delle vicende narrate ed è capitolo per capitolo, salvo si tratti di dati del tutto pacifici, seguito da un commento esplicativo nello stesso carattere ma in corsivo.

     Sia nel racconto che nei commenti sono inseriti tra parentesi richiami ai testi elencati nel capitolo ‘Le fonti’ e alle pagine interessate o ad altri scritti e documenti.

     Tali citazioni sono del tutto fedeli ed e possibile controllarle sui libri e le altre documentazioni ancora in commercio o facilmente reperibili.

    Devo dire a questo punto che ho già provato a contestare la condanna del Club alpino pubblicando nel 2018 un volumetto dal titolo “K2 La storia continua”, ma quel breve saggio, che non ha avuto fortune di vendita e ha ottenuto solo due o tre recensioni, era inficiato da un esame ancora lacunoso degli scritti dei protagonisti – in particolare non conoscevo nella sua interezza il Diario di Pino Gallotti e avevo letto male la relazione di Compagnoni a Desio – per cui ho ritenuto necessario scusarmene, come faccio ora convintamente, e poi provare a rettificarlo come dalle pagine seguenti.

     Torno peraltro sulle vicende del K2 soprattutto perché, rivedendo il caso nelle chiusure della pandemia, sono stato colpito dal tono d’assoluto disprezzo usato da Bonatti (in “K2 La verità” del 1996, 4^ edizione 2004, pagina 176) nel rifiutare l’incontro ripetutamente chiesto dal suo vecchio collega di spedizione all’evidente scopo di spiegare le rispettive ragion: “No. Anche se al Compagnoni non rimane più nulla da perdere, oggi il suo discredito non gli dà più diritto, per una ragione di decenza, a un confronto pubblico!”.

     Questa disumanizzazione del ‘nemico’, che sulla base delle sue accuse è per Bonatti e poi per l’opinione pubblica  appunto e soprattutto Compagnoni, m’è parsa fare il paio con l’incredibile disinvoltura dei citati ‘’Tre saggi’ nominati dal Club alpino nel condannare – senza sentire gli altri protagonisti dell’impresa, senza indagare circostanze tanto evidenti quanto determinanti come quelle più avanti riportate e soprattutto senza chiamarlo a difendersi – l’uomo che  con la sua tenacia (non va dimenticato che Lacedelli al mattino del 31 luglio voleva scendere, pagina 60 del suo “K2, Il prezzo della conquista”) aveva dato all’Italia la vittoria sul K2.

     Devo ancora precisare che l’argomento sul quale torno è quello delle decisioni e dei comportamenti dei componenti delle due squadre di punta nei giorni 29 e 30 luglio 1954, e non l’altro della durata dell’ossigeno nell’ascensione finale del 31, evidentemente proposto da Bonatti allo scopo di dipingere Compagnoni e Lacedelli come bugiardi che se avevano mentito su quel punto era da credere avessero falsato anche il resto.

     Per questo aspetto richiamo quanto sostenuto nel mio “K2 La storia continua”, Lìbrati Editrice 2018, pagine da 53 a 78 e cioè, riassumendo molto sommariamente, che contro l’accusa di Bonatti stanno sia i dati della salita del 31 luglio di molto, come si vedrà, più impegnativa nella prima parte che in quella finale, 

      sia la mancanza d’ogni plausibile ragione perché Compagnoni e Lacedelli, seri e conosciuti professionisti della montagna ma persone del tutto diverse per carattere e spirito rispettivamente gregario e ribelle, s’accordassero su una menzogna del genere, dalla quale non avrebbero avuto maggior gloria, prima d’aver vinto la cima o nelle ore d’estremo pericolo e stress della discesa notturna,

     sia le concordanti circostanze che le bombole dell’epoca, comprese le tedesche Drager, perdevano ossigeno nell’uso ad alta quota e dunque non garantivano affatto l’erogazione per le ore ritenute da Bonatti nei suoi millimetrici calcoli a tavolino, 

   che altri scalatori himalayani hanno continuato a portare in spalla bombole vuote per la difficoltà o il fastidio di scaricarsene, 

     che Compagnoni e Lacedelli avevano un valido motivo per portarle in cima, lasciarvele a provare la loro vittoria nel caso probabile che fossero caduti durante una discesa che a qual punto sapevano sarebbe stata proibitiva, 

    infine che essi giunsero in vetta con sui basti due bombole vuote e non tre, per un peso totale inferiore a 13 chili e non di 19.

     Non credo, malgrado il polverone che la questione ha sollevato, che vi sia motivo di trattarne ancora.

Le fonti

     Il racconto che più avanti propongo si basa sugli scritti dei quattro protagonisti delle vicende del 29 e 30 luglio 1954 e cioè Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Pino Gallotti e Lino Lacedelli (non sul libro “Erich Abram, un alpinista bolzanino”, Comune di Bolzano 2004, perché Abram non aggiunge nulla al racconto dei compagni).

     Si tratta dunque dei testi pubblicati e da me conosciuti come segue, qui identificati con una sigla per potere richiamarli sbrigativamente più avanti: 

     B1 : Walter Bonatti, “Le mie montagne”, Zanichelli editore 1962 (è questo l’anno indicato nel mio volume come quello del copyright, anche se il libro è dato da tutti per pubblicato nel 1961), edizione gennaio 1965;

     B2 : Walter Bonatti,  “K2 La verità – Storia di un caso”, Baldini-Castoldi-Dalai editori 1996, 4^ edizione 2004;

     C1 :  Achille Compagnoni, relazione al capo spedizione Desio pubblicata nel libro di quest’ultimo “La conquista del K2”, Garzanti editore 1954, edizione maggio 2004;

     C2 : Achille Compagnoni, “Uomini sul K2”, Veronelli editore 1958, nel testo riportato in “K2, Conquista italiana tra storia e memoria”, Bolis Edizioni 2004 (i numeri di pagina sono quelli di quest’ultimo volume);

     G : Pino Gallotti, “Spedizione italiana al K2 – 1954 – Diario alpinistico”, stampato nel 2010 da Paola Gallotti sulla piattaforma ‘ilmiolibro.it’ (e in parte riportato nel libro del CAI “Milano e le sue montagne”, 2002);

     L : Giovanni Cenacchi e Lino Lacedelli, “Il prezzo della conquista”, Mondadori editore 2004, terza edizione.

     Questi testi non sono però tutti ugualmente attendibili, dovendosi ovviamente dare maggior credito a quelli scritti durante la spedizione o subito dopo rispetto agli altri che molti anni dopo hanno innescato la polemica o sono stati redatti durante il suo infuriare.

     Il più alto grado d’attendibilità va allora attribuito al Diario di Gallotti in quanto scritto da un protagonista imparziale durante la spedizione – giorno per giorno salvo che in singole occasioni (come per il 26 e il 30 giugno, il 1° e il 2 agosto) e per il periodo 19 – 31 luglio (annotato “a partire dal giorno 8 agosto al campo base”) – registrando comunque i fatti nell’immediatezza del loro svolgersi.  

     Possono ancora ritenersi attendibili sia la relazione di Compagnoni a Desio, firmata anche da Lacedelli e consegnata al capo spedizione già nell’autunno del 1954, sia “Uomini sul K2” scritto da Compagnoni nel 1958, data sino alla quale, ma anche oltre, non sono provate discordie tra gli scalatori della spedizione.

     Pure attendibile va ritenuto il libro di Bonatti del 1961 “Le mie montagne”: il mio racconto delle vicende di quei giorni è in effetti basato soprattutto su di esso. 

     Meno, invece, “K2 La verità” del 1996, riedizione di “Processo al K2” del 1985 – nel quale Bonatti esplicita l’accusa a Compagnoni e Lacedelli d’aver spostato il nono campo per non essere sostituiti da lui nel balzo finale e aggiunge quella d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno supplementare – perché scritto decenni dopo i fatti e nel pieno dello scontro.

     L’attendibilità è infine minima per il libro “K2, Il prezzo della conquista” di Cenacchi e Lacedelli perché 

     – è stato pubblicato nel 2004 dopo ben cinquant’anni di silenzio (o al minimo quaranta se si considera l’intervista rilasciata nel 1994 a Roberto Mantovani per la ‘Rivista della montagna’, che peraltro non sono riuscito a leggere nella sua interezza), quando l’opinione pubblica alpinistica e non s’era ormai schierata decisamente dalla parte di Bonatti e poco dopo la condanna, datata 3 maggio 2o04, da parte dei ‘Tre saggi’ incaricati dal Club Alpino;

     – Lacedelli non aveva mai sino allora accusato Compagnoni d’aver tradito i patti concordati con Bonatti, né scrivendone per sé o parlandone con amici né dando proprio con Compagnoni un’intervista a Dino Buzzati per il “Corriere della sera” (L, 27) nel novembre 1954;

     – non sono credibili le decine di dialoghi virgolettati   avallanti l’accusa di Bonatti a Compagnoni d’aver tradito il piano del 29 perché se Lacedelli com’è plausibile non avesse tenuto un diario durante la spedizione non avrebbe potuto ricordare dopo mezzo secolo parole e frasi con tanta esattezza mentre se l’avesse tenuto come egli sembra affermare (L, 76) l’avrebbe di certo, per essere creduto, mostrato a Cenacchi il quale invece non ne fa cenno;

     – il testo si contraddice indicando come luogo ‘stabilito’ il 29 per il nono campo, e si vedrà in appresso, punti diversi e ben distanti tra loro e facendo dire a Lacedelli (L, 58) che “se fossimo stati in quattro sarebbe stato ancora meglio” e che “per me andava bene che venissero su Bonatti o anche l’hunza” (L, 60), salvo fargli ammettere in contrario (L, 59) che in quattro non si sarebbe potuto bivaccare nella ‘Super K2’ e (L, 61) che anche per ripararcisi alla meglio in tre si sarebbe dovuto tagliarla;

     – stranamente Cenacchi non pone domande sul punto –  invece determinante per capire perché Compagnoni non pose il nono campo sotto il ‘collo di bottiglia’ – se anche Lacedelli avesse allora ritenuto troppo pericoloso passare la notte sulla linea di caduta del sovrastante seracco;

     – né sul perché Lacedelli, se davvero riteneva che si fosse deciso di porre il nono campo in un punto ‘stabilito’, non chiese il 30 a Compagnoni di fermarcisi, se quel punto era sulla loro linea di salita, o di recarcisi se non lo era.

     L’ansia di sottrarsi al giudizio negativo già formato su lui e Compagnoni nell’opinione pubblica e nel Club alpino indusse evidentemente Lacedelli a strafare, e sono appunto le sue esagerazioni a scoprirlo inattendibile.

Il racconto   

Il piano del 29 luglio per l’assalto finale

1. Negli ultimi giorni di luglio del 1954 la spedizione italiana organizzata dal Club alpino e guidata dal professor Ardito Desio sta per sferrare, dopo due mesi d’assedio lungo lo sperone Abruzzi, l’assalto finale agli 8611 metri dell’ancora inviolato K2.

     Sono stati già saliti tre ‘ottomila’ – l’Annapurna conquistato dai francesi nel 1950 e poi l’Everest e il Nanga Parbat raggiunti nel 1953 rispettivamente da una spedizione britannica e da una austriaca – ma una vittoria sul K2, la seconda montagna della Terra per altezza, più difficile delle altre e tentata invano nel 1938, nel 1952 e nel 1953 da forti spedizioni statunitensi, restituirebbe credibilità e fiducia all’Italia che nove anni prima è uscita distrutta dalla guerra.

2.  Nel pomeriggio-sera del 29 luglio 1954, in una delle due tende dell’ottavo campo a 7630 metri sulla ‘spalla’ del K2, quattro uomini di punta della spedizione – Achille Compagnoni di 39 anni guida alpina a Cervinia, Pino Gallotti di 36 accademico di Torino, Lino Lacedelli di 28 guida a Cortina e Walter Bonatti di 24, accademico e guida nello stesso 1954 a Courmayeur – discutono il piano per l’assalto finale.

     Compagnoni è stato designato da Desio per tale assalto insieme con la guida pure di Courmayeur Ubaldo Rey che ha però dovuto rinunciare per sfinimento, Gallotti è un ingegnere chimico ottimo occidentalista, Lacedelli e più ancora Bonatti sono tra i migliori scalatori italiani del momento.

     Al settimo campo, pronti a raggiungerli, ci sono Eric Abram di 32 anni, guida alpina a Bolzano, e i due migliori portatori, pakistani di etnia Hunza come tutti gli altri, Isakhan e Amir Madi.

     Nei campi impiantati lungo lo sperone Abruzzi, oltre ai portatori, attendono di conoscere l’esito dell’ultimo assalto gli altri componenti della spedizione e cioè, oltre al già citato Rey, Ugo Angelino accademico di Biella, Cirillo Floreanini accademico friulano, Gino Soldà guida alpina di Recoaro Terme, il più anziano degli scalatori coi suoi 47 anni, e Sergio Viotto guida a Courmayeur, mentre al campo base attendono con loro il capo spedizione Ardito Desio, il medico Mario Pagani e il foto e cine-operatore Mario Fantin. 

     Non c’è più Mario Puchoz, guida a Courmayeur, vinto a 36 anni il 21 giugno da un edema polmonare lungo lo Sperone: il suo corpo giace in una tomba di sassi ai piedi della montagna.

3. Sopra le due tende dell’ottavo campo incombono un muro di ghiaccio alto trenta metri, poi un dosso di neve che costituisce la parte alta della ‘spalla’, un ripido canalone più tardi noto come ‘collo di bottiglia’ sotto un colossale seracco alto 120 metri (Ed Viesturs, “K2, La montagna più pericolosa della terra”, Corbaccio 2010, pagina 20) e, verso sinistra, un’impegnativa traversata che apre la via ai sempre meno ripidi pendii sommitali.

4. Il muro di ghiaccio sovrastante l’ottavo campo impedisce la visuale della montagna sino ai detti pendii sommitali (B1, 72 e B2, 62), ma Compagnoni e Lacedelli hanno potuto osservarla al mattino del 29 luglio, quando hanno superato il muro lasciando sopra di esso i carichi col necessario per porre il nono campo (C2, 144).

5. Il 29 sera i quattro concordano che il giorno seguente, 30 luglio, Compagnoni, già designato al ruolo di punta dal capo spedizione Desio, salirà con Lacedelli a porre il detto ultimo campo mentre Gallotti e Bonatti, che si offre per ciò spontaneamente (L, 62), scenderanno sopra il settimo a prendere due basti con l’ossigeno supplementare necessario ai compagni per l’ultimo balzo, e li porteranno sino a loro.

     Le circostanze sono pacifiche per Compagnoni, Lacedelli e Bonatti, mentre Gallotti (G, 104) sembra riportare al mattino del 30 il ‘delinearsi’ del piano.

     Non è plausibile però che il programma dell’assalto finale non fosse stato discusso nel pomeriggio-sera del 29, visto che nel primo mattino seguente si doveva passare all’azione e i quattro scalatori sarebbero partiti in direzioni e in ore diverse – in salita Compagnoni e Lacedelli alle 5,30 (C2, 145) e in discesa Bonatti e Gallotti alle 8 (B1, 71) – onde si deve supporre che Gallotti intendesse riferire quel “delinearsi” alla sera precedente.

       

6.  La conversazione del 29 sera tra i quattro scalatori termina lasciandoli diversamente convinti circa i particolari del compito della cordata di punta.

     Compagnoni ritiene si sia deciso che egli e Lacedelli debbano il 30 luglio “avvicinarsi al massimo alla vetta rimandando al 31 il balzo finale” (C2, 145) e ricorda (C1, 183) che in effetti il 30 luglio “noi due salimmo a piantare il cosiddetto 9° campo: in realtà una leggerissima tendina … Si cercò di portarci il più in alto possibile, fin sotto la fascia di rocce che taglia l’ultimo tratto della parete est”, precisando subito dopo che lui e Lacedelli s’illudevano addirittura, salendo al mattino del 30, d’arrivare a porre il nono e ultimo campo sopra il ‘collo di bottiglia’ (ivi).

     Anche Gallotti è convinto che il piano del 29 preveda per la cordata Compagnoni / Lacedelli il compito di salire “a piazzare il 9° campo, cioè la tendina leggerissima Super K2, il più in alto possibile” (G, 104)      

     e non smentisce la sua convinzione di allora quando nel 2002 Bonatti gli chiede di farlo (B2, 241-246).

     Bonatti pensa al contrario che il 29 si sia deciso che la cordata di punta debba porre l’ultimo campo non nel luogo prestabilito e quindi sotto e a sinistra della grande fascia di rocce rosse (Desio aveva peraltro genericamente previsto “un 9° campo a circa 8000-8100 metri”, si veda il suo “La conquista del K2”, Garzanti 1954 nella ristampa del 2004, pagina 142), ma invece “il più sotto possibile”, circa un centinaio di metri più in basso, per consentire a lui e Gallotti di realizzare la “massacrante missione” del trasporto delle bombole (B1, 70-71).

     Infine Lacedelli, che uscito dal colloquio del 29 convinto si sia “stabilito” un punto preciso per il nono campo, lo colloca però volta a volta “di fianco al ‘collo di bottiglia’, dove c’era una gobba” (L, 57) e quindi a 8050-8100 metri, oppure “a quota 7950” (L, 61), oppure nel punto del traverso a sinistra deciso da Compagnoni (L, 57) e quindi di nuovo intorno agli 8100 metri.

7. Questa divergenza di convinzioni tra Compagnoni e Gallotti da una parte, Bonatti da un’altra e Lacedelli da un’altra ancora è evidentemente frutto d’un malinteso presumibilmente indotto dalla quota e dalla stanchezza, di certo favorito dalla citata circostanza che la zona del ‘collo di bottiglia’ non sia visibile dal campo ottavo a causa del muro di ghiaccio che lo sovrasta, ma forse principalmente causato dalle differenti prospettive delle due cordate di punta e di sostegno.

    Se ci si dovesse basare sulla prevalenza numerica si dovrebbe preferire la versione di Compagnoni (che il 29 sera si fosse deciso di porre il nono campo “il più in alto possibile” e dunque non in un punto prestabilito), in quanto fornita dell’avallo letterale di Gallotti che scrive subito dopo i fatti, rispetto a quella di Bonatti (che  si fosse deciso invece di porlo “il più sotto possibile” e in un punto già bene individuato anche se non visibile dal campo ottavo), formulata invece molti anni dopo al momento d’inizio della polemica e priva di conferma perché non  si può considerare tale quella di Lacedelli, contraddittoria e giunta dopo mezzo secolo o quasi di silenzio. 

     Ma esiste un’altra spiegazione alla divergenza delle versioni, plausibile oltre che rispettosa della parola dei singoli protagonisti, ed è che tra i quattro ideatori del piano del 29 luglio si sia creato un malinteso – altri hanno già parlato di ‘equivoco’ – che li ha portati in perfetta buona fede a interpretarlo sul terreno in termini tra loro incompatibili e a sostenere poi tenacemente per decenni quelle diverse interpretazioni,

    un malinteso derivante appunto, come riportato sopra, dalla stanchezza, dalla quota, dall’ansia per l’azione imminente e dallo scarso interesse ai particolari perché sovrastato da quello di giungere alla vittoria, dall’’impossibilità di vedere, mentre si discuteva, il campo delle operazioni, e ancora, e forse soprattutto, dalla differenza dei compiti che ciascuna delle due cordate del giorno appresso s’apprestava ad adempiere.

     In effetti porre il nono campo ”il più in alto possibile” avrebbe comportato non solo una maggior fatica per chi s’era impegnato al trasporto delle bombole ma anche il rischio che non si riuscisse a farvele giungere, però facilitando, se vi si fosse riusciti, il compito della cordata incaricata, il giorno successivo, dell’ultimo balzo,

     mentre portare l’ossigeno “il più sotto possibile” avrebbe ridotto la fatica degli incaricati del trasporto ma aggravato l’impegno della cordata di punta col rischio, poi, che l’ossigeno finisse molto prima della cima. 

    E’ in questo quadro dissonante, caratterizzato da esigenze e prospettive non solo diverse ma contrastanti, che ciascuno dei due protagonisti principali si presenterà nella polemica post-spedizione, come si vedrà, assolutamente convinto della propria versione,   

     Bonatti giungendo ad accusare Compagnoni d’avere ‘spostato’ il luogo del nono campo più in alto del previsto per nascondersi nel timore di dovergli cedere il posto nella cordata di punta, ciò che costrinse lui e Mahdi al potenzialmente mortale bivacco all’addiaccio, e ripetendo l’accusa sino a convincerne nel 2004 il Club alpino,

     e Compagnoni sostenendo sino alla morte con uguale fermezza d’avere agito secondo gli accordi presi il 29 luglio col salire a porre il nono campo a 8100 metri e precisando d’essersi dovuto spostare a sinistra per porlo al riparo da possibili crolli del grande seracco.

     Ritenere in buona fede solo l’uno o l’altro di quei protagonisti si può soltanto se si ragiona per partito preso: un esame sereno dei contrastanti comportamenti e ricordi degli ideatori del ‘piano’ del 29 luglio1954 non può che portare al riconoscimento d’un reciproco malinteso sulla collocazione del nono campo.

La tenda Moretti ‘Super K2’

8. Al mattino del 30 luglio, come concordato la sera prima, Compagnoni e Lacedelli risalgono il muro di ghiaccio che sovrasta l’ottavo campo e, ripresi i carichi lasciati sopra di esso, proseguono sulla parte alta della ‘spalla’ verso la fascia di roccia che regge la cima del K2.

     Hanno con sé, oltre all’attrezzatura da scalata, la tendina Moretti ‘Super K2’ da 2,7 chili, sacchi-letto di piumino, fornelletto e viveri (C2, 145).

     Nella stessa mattina, partendo dal campo ottavo intorno alle 8, Bonatti e Gallotti scendono per circa duecento metri sotto di esso sino ai basti con le bombole (B1, 71) e lì incontrano Erich Abram e i portatori Isakhan e Mahdi che salgono dal settimo campo portando tra l’altro sacchi-letto di piumino anche per loro (B1, 72).

     Caricati i due basti, pesanti 19 chili ciascuno, Bonatti e Gallotti risalgono con quei compagni sulle corte impronte che hanno avuto cura di lasciare in discesa (B1, 72), giungendo all’ottavo campo alle 12 circa (G, 105).

     Consumato un sommario pasto coi portatori, i tre italiani concordano che Bonatti e Mahdi, accompagnati da Abram, porteranno le bombole d’ossigeno alla cordata di punta, mentre Gallotti e Isakhan, troppo provati, resteranno al campo (G, 105).

     Il programma prevede in particolare che Abram rientri comunque in serata mentre Bonatti e Mahdi, ove “non facciano in tempo a rientrare anch’essi a questa base, dovranno sistemarsi di fortuna e pernottare rannicchiati come possibile nella tendina assieme a Lino ed Achille” (G, 105).

     Qui c’è di nuovo contrasto tra racconti diversi.

     Infatti mentre Compagnoni ricorda che il 29 sera si decise di passare tutti insieme al nono campo la notte successiva, ma senza precisare come,

     Bonatti nel libro del 1961 riporta che l’accordo del 29 prevedeva il pernottamento a quattro nella sola ‘Super K2’ portata su dai compagni: “Se questo piano riuscirà, domani notte saremo lassù nella minuscola tendina del 9° campo tutti e quattro rannicchiati così come siamo ora” attendendo insieme l’alba (B1, 71); e aggiunge poi (B2, 75) che si sarebbe trattato d’una sistemazione non comoda che era però quella prevista negli accordi del 29 luglio

     e Gallotti, al contrario e come s’è visto, afferma che il pernottamento dei componenti delle due cordate in una sola tendina fu previsto il 30 da lui, Abram e Bonatti, e solo come eventuale qualora i due delle bombole non fossero riusciti a tornare all’ottavo campo (G, 105). 

     Non c’è dubbio che tra la versione di Bonatti che il pernottamento a quattro in una sola ‘Super K2’ fosse stato deciso il 29 anche da Compagnoni e Lacedelli, e la versione di Gallotti che un pernottamento del genere fosse stato previsto il 30 senza di loro, e solo come ipotesi subordinata, sia da preferire la seconda che quindi, come sopra, riporto nel racconto. 

     E ciò per i motivi seguenti: 

     – Gallotti scrive, come già notato, nell’immediatezza dei fatti e non dopo anni né in un clima di sia pure iniziale polemica come invece Bonatti;

     – del tutto ‘terzo’ rispetto all’impegno delle due cordate attive il 30 luglio, egli non aveva ragione alcuna per inventare di sana pianta l’accordo di quel giorno;   

     – Compagnoni e Lacedelli, pure scrivendo anch’essi che il 29 s’era deciso di passare tutti e quattro insieme la notte prima dell’assalto finale al nono campo, non scrivono in nessuna pagina dei loro ricordi che ciò sarebbe dovuto avvenire in una sola tendina;

     – non è plausibile che essi, pacificamente designati a comporre la cordata di punta, avessero previsto il 29 di accogliere nella minuscola ‘Super K2’ due compagni che avrebbero sconvolto il riposo loro necessario prima del balzo finale;

     – solo la versione di Gallotti spiega la riluttanza di Compagnoni, sottolineata da Lacedelli con l’intenzione d’accusarlo, ad accettare l’arrivo al nono campo di Bonatti e Mahdi evidentemente privi d’una seconda tenda o tendina nella quale ripararsi, che sarebbe stata ben visibile sopra uno dei loro basti;

      – infine e soprattutto è solo quella versione che, in quanto prevede come ipotesi principale il rientro al campo ottavo in serata, rende in qualche modo comprensibile, anche se imprudente in quanto non tiene conto della subordinata, la partenza di Bonatti verso l’alto senza, come si vedrà poco appresso, né tenda né sacchi-letto né viveri.

                      Lino Lacedelli, in salita il 30 luglio 1954 sopra l’ottavo campo con la ‘Super K2’ sullo zaino

  

  Chiarito ciò, ripeto quanto già scritto nel 2018 e cioè che un pernottamento di quattro persone in una sola ‘Super K2’, da chiunque e in qualsiasi momento fosse stato previsto, era del tutto irrealizzabile.

    Reinhold Messner (nel libro “Walter Bonatti, il fratello che non sapevo di avere”, Mondadori 2013, pagina 170) scrive che sul K2 al campo IX non sarebbe stato possibile trascorrere la notte in quattro nella tendina in quanto troppo piccola.

     Lacedelli (L 60, in nota) riporta che la Super K2’ del nono campo aveva le seguenti dimensioni: lunghezza 200 cm, larghezza davanti 120 cm, larghezza dietro 90 cm, altezza 75 cm, pari dunque a quella d’un tavolo da pranzo o da studio, e, in evidente riferimento all’apertura sul davanti mostrata nella foto a pagina 21, che entrare oppure uscire da quella tenda non era come aprire o chiudere una porta, ma richiedeva vere e proprie contorsioni (B2, 223),

     precisando ancora che la tendina era tanto bassa da costringere lui e Compagnoni, infagottati nei pesanti indumenti d’altra quota, a passare la notte con le gambe fuori 

     e chiarendo come s’è visto che anche per ripararcisi alla meglio in tre si sarebbe dovuto tagliarla (L, 60-61).

     Che quattro scalatori impegnati alle alte quote della montagna potessero non diciamo riposare ma anche  solo entrare insieme nella Moretti ‘Super K2’ va in effetti escluso anche in considerazione dell’abbigliamento necessario a resistere ai quaranta sotto zero notturni: due paia di calzettoni, scarponi alti fin quasi al ginocchio a doppia tomaia con quella esterna di pelle di renna, mutandoni, pantaloni di flanella, sopra-pantaloni di piumino e altri di tela impermeabile, maglia di lana, camicia di flanella, maglione pesante, giaccone di piumino, giacca a vento impermeabile, guanti, guantoni imbottiti, berretto di pelle d’agnello, secondo l’elenco che ne fa Compagnoni  (C1, 186), per non dire dei sacchi-letto pure di piumino dei quali s’erano dotati i due uomini della cordata designata per l’assalto finale.

      Se dunque i componenti di tale cordata e di quella d’appoggio di Bonatti e Mahdi si fossero ritrovati insieme al  nono  campo,   avrebbero  dovuto  per  tutta  la  notte alternarsi due a due dentro la sola ‘Super K2’ ivi presente, mettendo con ciò gravemente a rischio non solo l’incolumità di tutti ma l’efficienza della cordata che il giorno seguente doveva condurre l’assalto decisivo alla sconosciuta vetta, più di mezzo chilometro di dislivello sopra di loro, d’una montagna che aveva richiesto sino allora all’intera spedizione due mesi di sforzi.

     E’ d’altra parte errata l’affermazione formulata molto dopo la spedizione da Bonatti (B2, 75) che la sera del 30 luglio sarebbe stato possibile pernottare in quattro, anche se un po’ sacrificati, nella tendina del nono campo.

     Non è esatta, infatti, la la circostanza, addotta a prova di tale affermazione dallo stesso Bonatti, che la tenda usata al campo ottavo la sera del 31 da lui, Abram e Gallotti insieme con Compagnoni e Lacedelli appena rientrati dalla cima, fosse solo “di poco più grande” della ‘Super K2’. 

     In realtà all’ottavo campo erano presenti due tende Moretti, la ‘Himalaya’’ da 12 chili e la ‘K2’ da 9 chili, ed è altamente presumibile che i cinque italiani abbiano dormito insieme nella più grande, visto che l’altra doveva ospitare solo i due portatori.

     Ambo le tende erano comunque, come dalla seconda foto della pagina seguente, alte quasi quanto un uomo.

     Il Museo della montagna di Torino, che custodisce una delle tende Moretti ‘Himalaya’ usate dalla  spedizione del

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   La tenda Moretti ‘Super K2’: lunghezza due metri, altezza 75  centimetri, larghezza davanti 120 e dietro 90 centimetri

 

  Le due tende Moretti, ‘Himalaya’ e ‘K2’, dell’ottavo campo 

1954, ha peraltro risolto la questione fornendone cortesemente le misure reali: 200 x 190 x 155.  

     La tenda che nella notte del 31 luglio ospitò i cinque scalatori italiani, mentre Isakhan e Mahdi occupavano l’altra, non era dunque grande solo “poco più” della ‘Super K2’ del nono campo come afferma Bonatti, ma circa il doppio.

     L’errore sulla capienza della Moretti ‘Super K2’, da attribuire anche a Bonatti che vi insiste come sopra nei suoi libri, appare tanto più grave in quanto le tende, come tutti i materiali, erano state sperimentate prima della partenza della spedizione quanto meno nel primo “campeggio” sullo spigolo occidentale del Piccolo Cervino (La conquista del K2”, citato, pagina 78).

9. Mahdi viene convinto a salire con un carico di bombole verso il nono campo da Bonatti, Abram e Gallotti che gli prospettano la possibilità di giungere in vetta (B1, 74).

    Il portatore viene equipaggiato con capi d’alta quota reperiti al momento ma tiene i suoi scarponi (B1, 74 e L, 61) perché non c’è un paio in più delle speciali calzature doppie in pelo di renna in dotazione a ciascun componente italiano della spedizione.

    La cordata in partenza non prende con sé la seconda tendina ‘Super K2’ riservata come l’altra all’attacco alla vetta (Desio, “La conquista del K2, pagina 83) e che si dovrebbe anch’essa trovare all’ottavo campo (ivi) a cura di Lacedelli quale incaricato delle tende (L, 51), ma neppure i sacchi-letto di piumino di certo lì presenti e disponibili (B1, 72) né una anche minima scorta di viveri (B2, 263). 

     Bonatti, Abram e Mahdi lasciano dunque il campo ottavo alle 15,30 (B1, 75) – non “un paio d’ore” (B1, 83) ma tre ore e mezza dopo che vi sono giunti alle 12 (G, 105) – con solo, oltre ai basti, una corda, un paio di moschettoni e l’attrezzatura per le bombole (B1, 74), superano alle 16,30 (B1, 75) il bordo superiore del muro di ghiaccio e proseguono verso la fascia di rocce sulle piste tracciate al mattino da Compagnoni e Lacedelli. 

 

     Partendo dal campo ottavo senza sacchi-piumino e senza bevande Bonatti – anche se erroneamente convinto che egli stesso e Mahdi potessero entrare nella Super K2 di Compagnoni e Lacedelli e pernottarvi con loro – doveva sapere e certamente sapeva di non poter usare attrezzature e viveri portati su dai compagni e che però senza usarne avrebbe corso rischi inaccettabili.

     Dunque il muoversi senza il minimo indispensabile a sopravvivere a quella quota e a quelle temperature – per un peso totale che non avrebbe aggravato di molto il carico suo e di Mahdi e che forse e magari in parte avrebbe potuto sopportare Abram – può corrispondere soltanto, come s’è accennato, a una sua conscia o inconscia certezza di rientrare prima di notte al campo che stava lasciando,

     certezza che rende però incomprensibili i prolungati tentativi, che lo stesso Bonatti mise in opera di lì a poco, di raggiungere a tutti i costi la cordata di punta.

Il nono campo e il bivacco   

10. Compagnoni e Lacedelli hanno intanto superato, sulla parte alta della ‘spalla’, la quota di 7950 metri, alla quale secondo Bonatti s’è concordato di porre il nono campo, senza che Lacedelli abbia chiesto di fermarsi lì o nell’altro punto secondo lui ‘stabilito’, perché Compagnoni è, come s’è visto, invece convinto di dover salire il più in alto possibile e si comporta coerentemente a questa convinzione (C2, 145).

      I due hanno quindi proseguito fin quasi all’imbocco del ‘collo di bottiglia’, il canalone inclinato a 45 gradi (così Ed Viesturs a pagina 82 del suo citato “K2, La montagna più pericolosa della terra”), cioè sino a 8100 metri circa. 

     Qui è evidente l’esposizione ai possibili crolli dell’enorme seracco pensile e alle potenziali valanghe dal ‘collo di bottiglia’, intasato di neve fresca nella quale si affonda fino al petto (C2,145), onde Compagnoni decide di spostarsi a sinistra, sulla dorsale rocciosa fuori della loro linea di caduta.

    Nel libro del 2004 Lacedelli ricorda d’avere protestato che traversare a sinistra sarebbe stato più pericoloso che fermarsi dove erano arrivati e d’aver seguito Compagnoni, slegandosi però dalla corda che li univa, solo perché questi insistette (C2, 145 e L, 57).

     Non è facile credergli perché se avesse ritenuto così rischiosa la traversata non avrebbe dovuto slegarsi, 

     mentre appare senz’altro erronea la precisazione (L, 57) che l’episodio si svolse nel punto secondo lui ‘stabilito’ per il nono campo e cioè a quota 7950 metri.

     Infatti le indicazioni di Bonatti (sulla foto riportata in basso nella pagina 79 del suo citato “Le mie montagne”), evidenziano che l’inizio della traversata, e quindi quella disputa se vi fu, si collocano pochi metri sotto il luogo del bivacco con Mahdi e dunque intorno agli 8100 metri.

     In ogni caso la contestazione di Lacedelli riguardò soltanto la pericolosità del traverso e non l’obbligo d’attendere Bonatti in un punto ‘stabilito’ – nel suo libro egli, come s’è visto, non sostiene mai d’avere chiesto a Compagnoni di fermarsi o recarsi in quel punto – obbligo che dunque lo stesso Lacedelli non riteneva sussistente.

     Cadono allora tutte le sue insinuazioni sulla violazione da parte di Compagnoni del piano del 29.

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La cuspide del K2 da Est:

A (linea continua): percorso di Compagnoni e Lacedelli

B (linea tratteggiata): percorso di Bonatti e Mahdi

C  : luogo, a circa 8100 metri, del bivacco di Bonatti e Mahdi

D : verso il luogo del nono campo sulla dorsale rocciosa

E : canalone ‘collo di bottiglia’, la ‘E’ è a circa 8200 metri

F : traversata a sinistra sotto il seracco

G : grande seracco

I percorsi e il luogo del bivacco di cui ai numeri A, B e C sono riportati come dallo schizzo sulla foto a pagina 79 del libro di Walter Bonatti “Le mie montagne”

     

     Quanto al fatto che la pericolosità del seracco fosse un motivo evidente e sufficiente per lo spostamento verso la dorsale rocciosa, percorsa da Fritz Wiessner nel tentativo statunitense del 1939, Compagnoni scrive che piazzare il nono campo dove lui e Lacedelli erano giunti (cioè all’inizio del traverso a sinistra) comportava esporlo al rischio di crolli dalla montagna di ghiaccio che sporgeva minacciosa sopra il canalone (cioè sopra il ‘collo di bottiglia’) e che lui stesso e il suo compagno cercarono quindi un posto più sicuro nel quale passare la notte dirigendosi verso la cresta che vedevano a sinistra, fuori dalla linea di caduta del seracco, sperando, come poi avvenne, di poter piazzare lì’ la ‘Super k2’ (C2, 145).

     Lacedelli conferma il rischio di crolli anche se, come s’è visto, non nel suo libro del 2004 ma in un’intervista a ‘Le Monde’ del 29.8.2001 (B2, 223): “Quando siamo arrivati al posto previsto dove fissare il campo 9°, ci è parso molto pericoloso perché esposto alla caduta di seracchi”, con ciò tra l’altro affermando contro se stesso (L, 61) che il posto ‘stabilito’ era a 8100 metri. 

     Ma anche Bonatti conferma, ricordando che nella notte e dal luogo del suo bivacco (coincidente con l’inizio del traverso di Compagnoni e Lacedelli) vedeva sopra di sé l’ombra d’una tremenda cascata di ghiaccio, una vera minaccia sospesa un cui anche minimo frammento avrebbe spazzato via in un soffio lui e Mahdi  (B2, 41), ripetendo a pagina 43 del suo libro “I miei ricordi” del 2008, 2^ edizione, che quel luogo si trovava esattamente sulla traiettoria degli eventuali crolli del grande seracco. 

     L’estrema pericolosità di tutta quella zona, evidente nella foto della pagina precedente, è stata tragicamente confermata dai numerosi incidenti mortali causati appunto da crolli del seracco pensile nel corso delle ascensioni seguite alla ‘prima’ italiana del 1954.

     Allora non porre lì il nono campo, una volta vista da vicino la situazione, era per Compagnoni, che comunque non riteneva d’essere tenuto a fermarvisi secondo il piano del 29, una scelta obbligata per salvaguardare l’incolumità sua e di Lacedelli e il successo dell’impresa.

     Bonatti sostiene invece dal 1985 che Compagnoni voleva il 30 luglio nascondergli il nono campo, o comunque porlo fuori dalla sua portata, perché temeva d’essere da lui sostituito, il 31, nell’assalto finale.

     Le sole ‘prove’ portate da Bonatti a sostegno di tale tesi sono lo sfinimento che egli notò in Compagnoni il 29 sera e la frase, non riportata o confermata dai tre altri presenti, che lo stesso Compagnoni gli avrebbe rivolto: “Se domani anche lassù al 9° campo sarai in forma, può darsi che tu prenda il posto di uno di noi due” (B1, 71).

     La sera del 29 Compagnoni e Lacedelli erano in effetti duramente provati (G, 104) dall’aver  superato il muro di ghiaccio,  anzi Lacedelli ne era stravolto (L, 57), Bonatti poteva realmente essere il più in forma anche se fuori uso il mattino precedente (B1, 84) e può darsi che  Compagnoni l’abbia davvero blandito ventilando un suo inserimento nella cordata di punta per deciderlo a incaricarsi del trasporto delle bombole come Bonatti fece poi con Mahdi illudendolo di poter  giungere in cima (B1, 74), ma tutto ciò non prova affatto che Compagnoni abbia cercato di nascondersi il giorno successivo.

     Egli infatti, se pure sfinito la sera del 29, come peraltro tutti dopo le fatiche del giorno, non lo era certo il 30, quando salì senza problemi 500 metri di dislivello su neve fonda e placche difficili col materiale per il nono campo, né realizzando il 31 un exploit presumibilmente più impegnativo del trasporto delle bombole su piste già fatte e comunque probante per un anche precedente stato di ottima forma, 

     mentre è del tutto illogico supporre che appunto il 30, quando era fisicamente a posto come sopra e con Bonatti da ritenere invece fuori gioco dopo la “massacrante missione” del trasporto delle bombole, abbia deciso di rendere più lungo e difficile il percorso verso la vetta, mettendo a rischio all’ultimo momento il successo della spedizione, solo per il timore di dover dare seguito alla vaga ipotesi della sera prima e non invece per motivi obiettivi tanto gravi quanto evidenti.

    I fatti narrati dai protagonisti, al netto delle supposizioni di Bonatti, indicano che Compagnoni salì a 8100 metri perché riteneva di dover arrivare “il più in alto possibile” e che andò a porre il nono campo fuori della linea di salita per sottrarsi ai possibili crolli del grande seracco: di altre sue intenzioni non c’è alcuna prova anche solo logica.

11.  Procedendo verso sinistra sul pendio di neve e ghiaccio e superando difficili placche (C2, 145), Compagnoni e Lacedelli giungono intorno alle 15 (C1, 183) sulla dorsale rocciosa, indicata da Desio quale via alternativa per la cima (“La conquista del K2” citato, pagina 144), a circa 100 metri in linea d’aria (B2, 75) dall’inizio del traverso, luogo del successivo bivacco di Bonatti e Mahdi.

     Se non pongono il campo prima della dorsale è presumibilmente perché per basare la ‘Super K2’ sul pendio inclinato come sopra a 40/45 gradi dovrebbero movimentare circa un metro e mezzo cubo di neve e ghiaccio, impresa irrealizzabile quando (C2, 145) la deficienza d’ossigeno impedisce di dare più di due colpi di piccozza di séguito.

     Sulla dorsale rocciosa i due trovano invece una piccola sella capace di ospitare la tendina, che montano con un lavoro lento ed estenuante (C2, 145).

     Si tratta di un posto assai precario, non piano ma in leggera pendenza (L, 57), ma è il solo possibile per l’ultimo campo e, terminato di piantarla, Compagnoni e Lacedelli entrano nella ‘Super K2’per ripararsi dal freddo della sera.

12. Bonatti, Abram e Mahdi hanno intanto risalito il pendio della ‘spalla’ e, avendoli chiamati, hanno avuto da Compagnoni e Lacedelli l’indicazione di seguirne le piste, ciò che fanno (B1, 75-76) sino a giungere nella zona ritenuta da Bonatti quella, a 7950 metri circa, concordata per il nono campo (B2, schema a pagina 87).

     Qui Abram accusa un inizio di congelamento a un piede e, dopo averlo ovviato con un massaggio, lascia i compagni intorno alle 18,30 per rientrare all’ottavo campo (B1, 77).

     Bonatti e Mahdi seguono ancora le piste sul ripido dosso sin quasi all’imbocco del ‘collo di bottiglia’, chiamando ancora a più riprese i due della cordata di punta ma senza avere risposte e senza pertanto capire dove sia la loro tenda.

     Prima dell’inizio del crepuscolo e quindi intorno alle 19,30 (le effemeridi del 31 luglio riportate da Bonatti in B2, 71 danno l’alba dalle 3,47 alle 4,20, il sorgere del sole alle 4,54, il tramonto alle 19,05, il crepuscolo dalle 19,39 alle 20,12, la notte poi), Mahdi comincia a gemere per il freddo e a mostrare segni di nervosismo (B1, 77), continuando tuttavia a salire con Bonatti sin quasi alla base del ‘collo di bottiglia’ (B1, 78), intorno agli 8100 metri (B1, 79, foto 2).

     Da qui i due lanciano richiami “sempre più angosciati” e “disperati” che rimangono ancora senza risposta, al che Mahdi prende a gridare parole convulse: sperando che la tendina sia dietro un masso cinquanta metri più in alto, Bonatti si libera dal basto con le bombole e lo raggiunge, trovando però soltanto tracce semi-cancellate dal vento che salgono obliquamente verso sinistra (B1, 80).

     La delusione gli procura uno shock (ivi) dal quale, accasciato sulla neve, impiega molto tempo a riprendersi (ivi); quando si rialza, certamente dopo le 20,12 (B1, 80, confrontato con B2, 71) perché il buio è ora assoluto, non può utilizzare la torcia elettrica, forse scaricata dal gelo in quanto tenuta in una tasca esterna (B1, 80).

     Tornato dal portatore che intanto lancia urla impressionanti, mentre chiama ancora i compagni Bonatti vede con terrore Mahdi muoversi vacillando sul ripido pendio verso l’alto e il basso e di fianco come fuori di senno, senza precipitare solo perché, come lui, affonda nella neve (B1, 81).

     Ritenendo impossibile scendere all’ottavo campo perché Mahdi volerebbe certo giù e lui non potrebbe reggerlo, Bonatti prende “istintivamente” a tagliare un gradino sul pendio (B1, 81) mentre, in preda a una “crisi spaventosa”, grida “No, non voglio morire! Non devo morire! Lino, Achille, non potete non sentirci! Aiutateci! Maledetti!” (B1, 82).

     Quando riesce a superare la crisi si rende conto d’avere attuato uno scavo d’un metro per sessanta centimetri sufficiente ad accoccolarvisi in due (ivi).

     Mahdi, che nel frattempo s’è andato calmando, accoglie con favore la prospettiva di sedersi con lui (ivi).

     Anche se ormai rassegnato a passare la notte   all’addiaccio, Bonatti chiama ancora i compagni e quando alle 21,30 circa sulla cresta a sinistra sotto la grande fascia di rocce s’accende finalmente la luce d’una torcia, segnala la propria presenza e chiede perché non ci sia stata sino allora risposta (ivi).

     Il capitolo riassume i fatti secondo il racconto del solo Bonatti visto che Mahdi, sentito in Pakistan, non accenna a scene come quelle descritte (B2, 61-65).

     Va comunque notato che la prima domanda di Bonatti, dopo ore di ricerche, riguardò il silenzio delle ultime ore e non lo spostamento del nono campo, come sarebbe stato naturale ove egli lo avesse allora ritenuto ‘arbitrario’.

              

13. Il dialogo a distanza che ne segue, disturbato dal vento sulla dorsale ove era la tendina (L, 59), ci è giunto in tre versioni in parte differenti.

     Compagnoni nel 1958 racconta che ormai a notte lui e Lacedelli udirono delle urla da dentro la tendina e, dopo esserne usciti a fatica e avere riconosciuto la voce di Bonatti, gli gridarono di tornare indietro lasciando le bombole perché la traversata sarebbe stata troppo pericolosa e alla risposta di Bonatti, “Non preoccupatevi di me!”, si tranquillizzarono pensando che il compagno e il portatore sarebbero tornati all’ottavo campo sulla pista tracciata in salita (C2, 146).     

     Bonatti ricorda invece nel 1961 che alla sua richiesta di chiarire perché si facessero vivi solo allora, Lacedelli rispose che non potevano gelare fuori della tenda per attenderlo (B2, 39), che lo stesso Lacedelli, dopo avergli chiesto a sua volta se avesse con sé l’ossigeno gli disse di lasciarlo lì e di scendere, infine che egli (Bonatti) spiegò che per sé non ci sarebbero stati problemi ma che Mahdi era fuori di sé (B1, 82 – 83).

     Nel 2004 Lacedelli, confermando d’avere parlato solo lui con Bonatti, scrive che questi chiese d’aver luce per salire, che egli rispose di non provarci perché sarebbe stato pericoloso e di tornare invece all’ottavo campo lasciando le bombole (L, 58), infine che alla precisazione di Bonatti che per sé poteva farlo, “ma è per Mahdi”, pensò che il compagno temesse di non riuscire a far ragionare il portatore e, forse contraddittoriamente, che avrebbe però potuto portarlo giù, per cui salutò, spense la torcia e, rientrato nella tendina, raccontò a Compagnoni, il quale approvò, d’aver consigliato a Bonatti di scendere (L, 59).

     Ai racconti dei protagonisti del dialogo s’aggiunge il ricordo di Gallotti, nel suo Diario alla data del 31 luglio, secondo cui Bonatti, rientrato al campo ottavo al mattino di quel 31, riferì che “ieri sera lui e Mahdi verso le 22 sono giunti a breve distanza dalla tendina di Achille e Lino. Hanno gridato verso l’alto per farsi guidare fino alla tenda al buio ormai sopravvenuto ma, pur sentiti anche se le parole sono andate disperse, per un malinteso la cosa non è stata possibile …” (G, 106). 

         

14. Allo spegnersi della torcia Mahdi viene colto da una seconda crisi e dopo avere urlato contro Compagnoni e Lacedelli tenta per due volte di scendere verso l’ottavo campo, venendo trattenuto da Bonatti che lo convince di nuovo a sedersi accanto a lui (B1, 83).

     Dopo avere atteso inutilmente la riapparizione dei compagni, e averli ancora chiamati invano, Bonatti si dispone al bivacco all’addiaccio con Mahdi a 8100 metri, nel gelo della notte del tutto serena peggiorato, dopo qualche ora, da un’improvvisa bufera di neve che si placa soltanto poco prima dell’alba (B1, 83-85).

     I tre ultimi capitoli forniscono i dati e permettono le osservazioni seguenti.

     Il 30 luglio Bonatti raggiunse con Mahdi intorno alle 18,30, salendo in tre ore 300 metri di dislivello sulle piste dei compagni, il punto sulla “spalla” del K2, a 7950 metri, nel quale egli riteneva che secondo il piano della sera prima Compagnoni e Lacedelli avrebbero dovuto porre il nono campo e, poiché non vi erano, salì ancora sulle loro piste cercandoli e chiamandoli per altri 200 metri, alla luce del tramonto per più di un’ora e mezza e invece nel buio dopo le 20,12, sino a raggiungere la base del “collo di bottiglia” a circa 8100 metri, avendone lì finalmente risposta intorno alle 21,30 (B2, 87).

    Il programma concordato poche ore prima con Abram e Gallotti (G, 105) prevedeva peraltro che egli tornasse al campo ottavo se non fosse riuscito a raggiungere i compagni, ciò che comportava l’individuazione da parte sua del momento nel quale scendere sarebbe divenuto necessario per evitare i rischi del freddo e del buio. 

    Una tale valutazione era comunque imposta a Bonatti dalla sua qualità di capo-cordata d’un portatore che per quanto capace non era da ritenere all’altezza degli scalatori italiani, tutti espertissimi, la cui incolumità gli era totalmente affidata e che egli sapeva privo di calzature adatte al gelo della quota, tanto più in quanto poco prima Abram, malgrado ne fosse provvisto, aveva lamentato un inizio di congelamento ai piedi.

     Bonatti avrebbe dunque dovuto valutare in tempo utile l’opportunità di scendere e comunque scendere senz’altro quando Mahdi cominciò a lamentarsi per il freddo alle 19,30, o al più tardi quando il portatore prese a gridare parole convulse, intorno alle 20 per quanto si ricava dal suo libro del 1961, perché sino a quel punto, secondo le citate effemeridi, era possibile farlo in sicurezza non essendo ancora iniziato il crepuscolo né, poi, il buio.

     Egli invece, ancora secondo il suo racconto, non prese in esame questa necessità in nessun momento prima che l’oscurità complicasse la discesa, o la impedisse del tutto secondo il suo giudizio.

     Le scene di disperazione alle quali Bonatti racconta d’essersi lasciato andare una volta accertato che il nono campo non si trovava neppure a 8100 metri, inusitate per un alpinista di fortissima tempra quale egli era,  certo non ovviarono, e anzi presumibilmente aggravarono anche per la concreta impossibilità di comunicazioni verbali (l’uno parlava solo italiano, l’altro solo hurdu, B2, 64), lo stato confusionale del portatore, abituato a considerare gli scalatori della spedizione superiori esperti e affidabili la cui angoscia non poteva che connotare una situazione di pericolo estremo e mortale.

     Quanto al contatto finalmente raggiunto intorno alle 21,30 del 30 luglio, Compagnoni e Lacedelli – o meglio soltanto quest’ultimo, perché fu solo lui a scambiare con Bonatti le poche frasi urlate nel vento di cui ambedue danno conto – avrebbero forse potuto e dovuto tentare di comprendere meglio la difficile situazione di Bonatti e Mahdi e cercare di ovviarla in qualche modo.

     Va notato tuttavia che a quel punto per far salire a notte questi ultimi lungo la pericolosa traversata, Compagnoni e Lacedelli avrebbero anzitutto dovuto raggiungerli e poi guidarli sino alla tendina correndo inaccettabili rischi di incidenti e congelamenti, e che queste operazioni, e dopo ancora la necessità di dividere con loro non solo la ‘Super K2’ ma i sacchi-letto sino al mattino, avrebbero sfinito tutti rendendo in concreto impossibile il balzo finale.

    E va notato ancora che la conclusiva convinzione di Lacedelli, condivisa da Compagnoni, che Bonatti e Mahdi potessero raggiungere anche a notte l’ottavo campo, era, anche se non sufficientemente confrontata con lo stesso Bonatti, giustificata dai seguenti dati di fatto:

     – il percorso tra il luogo ove Bonatti si trovava con  Mahdi e il campo ottavo si svolgeva su  un pendio di neve fonda ma assestata, inclinato a non più di 40-45 gradi solo per i primi 200 metri e sul quale erano presumibilmente ancora evidenti quanto meno a tratti, alla luce di luna e stelle nel cielo completamente sereno, le tracce di salita di quattro scalatori (un pendio sul quale peraltro, anche se questo Compagnoni e Lacedelli non lo sapevano, Mahdi non era caduto malgrado le sue acrobazie e che lo stesso portatore avrebbe percorso da solo e senza problemi all’alba del giorno seguente, come poi essi stessi  al buio, tornando il 31 dalla cima);

     – Bonatti, come invece sapevano Compagnoni e Lacedelli, era un alpinista d’eccezionale capacità che era lecito presumere avvezza a gestire secondi di cordata meno abili e che non poteva avere difficoltà a far scendere anche al buio un portatore per quanto agitato – e che peraltro proprio scendere voleva – con le usuali manovre di corda su un pendio di neve di 200 metri privo di ostacoli particolari;

     – ciò anche in quanto lo stesso Mahdi, come pure è presumibile sapessero anche Compagnoni e Lacedelli, già arruolato nella spedizione austriaca del 1953 al Nanga Parbat e allenato dai due mesi con gli italiani sullo sperone Abruzzi, non era affatto un pivello ma un uomo descritto dallo stesso Bonatti come formidabile, il migliore dei portatori Hunza e l’unico tra loro da considerare alla pari dei più bravi sherpa nepalesi (B1, 74).

     Non è allora ipotizzabile che Compagnoni e Lacedelli nutrissero dubbi sulla possibilità che Bonatti rientrasse con lui all’ottavo campo una volta terminato il difficile e troppo breve dialogo sopra richiamato.

La vetta

15. All’alba del 31 luglio Mahdi scende da solo al campo ottavo giungendovi con le estremità colpite dal gelo (G, 105): subirà poi pesanti amputazioni restando gravemente invalido, ciò che solleverà un’ondata d’indignazione anti-italiana nell’opinione pubblica pakistana.

     Bonatti scende poco dopo arrivando all’ottavo campo in condizioni del tutto integre (G, 106).

16. Nella stessa mattina del 31 Compagnoni e Lacedelli abbandonano il nono campo scendendo alle bombole che Bonatti ha avuto cura di rendere evidenti sul pendio pulendole della neve notturna.

     Lasciati sul posto gli zaini con il materiale ormai inutile e dei quali si caricheranno al ritorno (C1, 186), indossati i basti e fruendo dell’ossigeno supplementare, affrontano il ‘collo di bottiglia’ salendo all’inizio lungo le difficili rocce alla loro sinistra ed entrando poi nel canalone intasato di neve.

     Affondano spesso sino alla vita sia lì che nell’esposta traversata sotto il grande seracco e lungo i successivi ripidi pendii: “La neve, racconta Compagnoni, una imprevista enorme coltre di neve non faceva nessuna presa sotto i nostri piedi. Dovevamo tirarla al di sotto di noi con le braccia, poi salirvi sopra con le ginocchia e cercare di pressarla. Ma era come pressare dello zucchero o della sabbia … Sprofondavo sino alla cintola e con la spalla destra sfioravo la neve che avevo a monte … ci trovammo così sospesi sullo strapiombo senza che nessuno dei due facesse sicurezza all’altro, affidati a un lenzuolo di neve quasi verticale che avrebbe potuto partire ad ogni istante.” (C2, 148-149).

     I due raggiungono a sinistra una crestina, poi dossi di neve man mano più dura e, alle 18, la vetta del K2.

     Dopo mezz’ora di foto e film lasciano sulla cima i basti con le bombole vuote e scendono prima nel crepuscolo e poi nella notte sul rischiosissimo percorso di salita giungendo alle 23 all’ottavo campo.

     Le ascensioni successive, diverse delle quali finite in tragedia sul ‘collo di bottiglia’ o sul traverso sotto il grande seracco, in salita o in discesa dalla vetta, evidenzieranno l’eccezionale bravura e l’incredibile fortuna della cordata italiana vittoriosa sul K2 nel 1954.

Il ritorno

17. Abram, Bonatti, Compagnoni, Gallotti e Lacedelli scendono il 1° agosto dall’ottavo al quarto campo, a 6450 metri, ove pernottano.

     Da qui, mentre scendono anche gli altri componenti della spedizione, Abram, Compagnoni e Lacedelli rientrano il 2 agosto direttamente al campo base dove il 3 li raggiungono Bonatti e Gallotti dopo un ultimo pernottamento al campo uno.

     Gli spostamenti degli alpinisti italiani in tutti i giorni del mese di luglio del 1954 lungo i nove campi dello sperone Abruzzi sono riportati nell’accurato grafico di Mario Fantin presente nel suo libro “K2 Sogno vissuto”.

18. Dopo la lunga discesa dalla montagna, Compagnoni rientra in aereo da Karachi insieme con Rey, Fantin e il dottor Pagani, mentre tutti gli altri scalatori si imbarcano il 10 settembre sulla nave ’Asia’ che li porta a Genova ove vengono accolti da una folla entusiasta di cittadini esaltati dalla loro vittoria.

     Il successo italiano laddove hanno ripetutamente fallito le spedizioni USA influisce favorevolmente sull’immagine internazionale del Paese che ne trae forza sulla via della ricostruzione. 

19. Né durante la discesa dello sperone Abruzzi e nei giorni del ritorno dalla montagna e del rientro in patria né negli anni seguenti dappresso la spedizione è mai documentata una qualsiasi polemica tra gli scalatori italiani in ordine ai comportamenti reciprocamente tenuti durante l’ascensione del K2.

     Non risulta in particolare che Bonatti e/o Lacedelli abbiano allora contestato a Compagnoni, o annotato per sé o riferito ad altri, le critiche e i sospetti sulle sue scelte che hanno poi avanzato contro di lui.

     In effetti prima del 1958 o del 1961, come si vedrà più avanti, nessun documento accenna a contrasti o polemiche tra gli scalatori della spedizione circa i reciproci comportamenti durante l’ascensione o nel ritorno. 

     Esistono tuttavia anche elementi di prova positiva d’un clima di cordialità e amicizia tra di essi dopo la vittoria.

     In questo senso Lacedelli, secondo cui tornando al campo base tutti gli italiani erano euforici, contenti (L, 77), nonché le pagine del libro “Tutti gli uomini del K2” di Mirella Tenderini (Corbaccio 2014), citate nel Gogna Blog del 7 luglio 2014, che descrivono l’atmosfera di grande cameratismo tra gli scalatori sulla nave che li riportava in Itala, concludendo che tra loro c’era un’intesa perfetta e che festeggiavano da amici la vittoria raggiunta.

     Questa situazione è comprovata dalla foto di gruppo riportata alla pagina seguente, scattata appunto sulla nave Asia del Lloyd Triestino nel settembre 1954.

     Ma è lo stesso Bonatti a confermare quel clima nell’intervista che compare il 18 novembre 1954 sulla rivista “Settimo giorno”: “Devo dire che tra noi non ci fu mai la minima divergenza di vedute, e ognuno si prodigò al limite delle sue energie, senza risparmio. In condizioni diverse, non saremmo riusciti a nulla”.

 

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Sulla ‘Asia’, settembre 1954: Walter Bonatti è il secondo dal basso,

con Abram e Gallotti sopra di lui, Lacedelli l’uomo al centro in alto

                            

      Appare allora inattendibile la sua affermazione d’aver capito già sul K2 (B1, 87, penultimo paragrafo, e più ancora B2, 46, ultimo paragrafo) che Compagnoni e Lacedelli gli avevano giocato un brutto tiro.

     Lacedelli, smentendo ancora se stesso (vedi poco sopra L, 77) racconta nel 2004 (L, 62) che rientrando al campo ottavo alle undici di sera del 31, dopo la cima, era molto dispiaciuto, che si scusò con Bonatti spiegando che lui avrebbe voluto fermarsi là (cioè nel punto ‘stabilito’) ma Compagnoni non aveva voluto, e che Bonatti gli rispose di non avercela con lui ma con Compagnoni.

     Rendono inattendibile questo ricordo in ritardo di mezzo secolo anzitutto la circostanza che quel dialogo a due, in una tenda nella quale erano ammucchiati l’uno sull’altro cinque uomini, non fu sentito da nessuno

     e l’altra che Bonatti, il quale già nel 1961 aveva scritto che appunto quella sera e a quell’ora cinque cuori esultarono insieme (B1, 87), non lo confermò mai, come avrebbe certamente fatto, visto che avallava le sue accuse, se avesse contenuto anche un briciolo di verità.

     Ma altrettanto inattendibile appare la scusa addotta da Bonatti ad Aldo Cazzullo, si veda il Corriere della Sera 13.12.2021, di non avere denunciato allora Compagnoni perché Desio aveva imposto il silenzio: non certo a lui, che contestò come appresso relazione e film ufficiali e rilasciò liberamente la citata intervista a ‘Settimo giorno’, e comunque non in tutti gli anni dal 1954 al 1961. 

La polemica

20. Il capo spedizione Desio pubblica nello stesso 1954 il libro “La conquista del K2” che riporta la relazione su “L’assalto alla vetta” scritta e firmata in prima persona da Compagnoni e Lacedelli e peraltro priva d’ogni nota critica sui movimenti e le scelte di Bonatti del 30 luglio.  

     Bonatti contesta la relazione di Desio sposata dal Club alpino e il film ufficiale perché non danno il dovuto rilievo al suo impegno nel portare alla cordata di punta l’ossigeno per il balzo finale ma senza, per quanto risulta, muovere critiche ai due uomini della cima: la protesta porta a qualche marginale modifica del film ma non induce né Desio né il CAI a cambiare il resoconto ufficiale.

     Nel 1955 Bonatti insiste con una lettera sottoscritta da quasi tutti i componenti della spedizione ma inutilmente.

     Nel 1958 Compagnoni pubblica il libro “Uomini sul K2” confermando la relazione a Desio ma scrivendo, questa volta, che Bonatti “insieme con Mahdi, preferì passare la notte lì, scavandosi un buco nella neve ed esponendosi a un rischio più grave di quello rappresentato dalla discesa verso l’ottavo campo”.

     Nel capitolo “K2 – Gli ultimi campi” del libro “Le mie montagne” del 1961 Bonatti contesta a Compagnoni e Lacedelli d’avere posto il nono campo, il 30 luglio, in luogo diverso da quello concordato la sera del 29 e d’essere stato da ciò costretto con Mahdi al bivacco, dunque non da lui ‘preferito’ rispetto al rientro al campo ottavo.

     Nel 1964 il giornalista Nino Giglio insinua sulla “Nuova Gazzetta del popolo” di Torino che Bonatti usò durante il bivacco parte dell’ossigeno destinato ai due della cima ma, querelato per diffamazione, è costretto a ritrattare.

     Non si può peraltro, sino a prova contraria, ritenere che sia stato Compagnoni a suggerire quell’insinuazione perché

     . Bonatti querelò Giglio e il giornale, non Compagnoni;

     . la generica affermazione di Giglio d’essersi ispirato ai racconti di Compagnoni non comporta che questi gli avesse proposto il sospetto, semmai il contrario;

     . non è plausibile che Compagnoni suggerisse a Giglio un’insinuazione che egli sapeva sarebbe stata smontata da Bonatti con estrema facilità e semplicemente notando che le maschere con i miscelatori, indispensabili per fruire dell’ossigeno contenuto nelle bombole, si trovavano negli zaini dei componenti la cordata di punta;

      . che il sospetto provenisse da altra fonte è suggerito infine dalla deposizione di Mahdi, interrogato in Pakistan nel corso del processo per diffamazione, secondo cui Bonatti aveva deciso di usare l’ossigeno “al momento del bisogno” (B2, pagina 61), e dalla considerazione che l’ex portatore non aveva nessun rapporto con Compagnoni

     21. Nel libro “Processo al K2” del 1985 e poi in “K2 – La verità – Storia di un caso” Bonatti insiste ancora, nel secondo (Baldini-Castoldi-Dalai editore, 4^ edizione del 2004) riportando (a pagina 148) e sottoscrivendo (a pagina 10) quanto scrive conclusivamente il trekker australiano Robert Marshall: Compagnoni non cambiò il luogo per il nono campo solo per il rischio di valanghe ma anche per mettere Bonatti in condizioni di non poterlo raggiungere, e insieme con Lacedelli non rispose ai richiami del compagno abbandonandolo al suo destino.

     Nello stesso libro Bonatti accusa inoltre Compagnoni e Lacedelli d’aver mentito sulla fine dell’ossigeno, rimasto secondo i suoi calcoli disponibile sino in vetta.  

     Mentre la disputa va avanti nei circoli alpinistici e sui media di mezzo mondo, Bonatti conferma le accuse in altri scritti portando dalla sua l’opinione pubblica non solo alpinistica e non solo italiana, sino a quando nel 2004, cinquantennale dell’ascensione, Lacedelli pubblica col giornalista Cenacchi il libro “K2, il prezzo della conquista”.

     In esso, pure insistendo sulla fine dell’ossigeno prima della vetta, lo scalatore ampezzano afferma d’avere anch’egli sospettato allora, peraltro senza esserne certo (“è un’idea mia”, L, 57) e senza mai contestarlo al suo compagno di vetta, che Compagnoni avesse spostato il nono campo dal luogo ‘stabilito’ per non farsi raggiungere e sostituire da Bonatti.

     Subito prima la commissione dei ‘Tre Saggi’ nominata dal Club alpino – al di fuori peraltro d’ogni previsione statutaria dello stesso Club – e composta da Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi, ha esaminato la questione concludendo che il nono campo fu in effetti spostato arbitrariamente in un punto non raggiungibile da Bonatti, che questi fu costretto al bivacco all’addiaccio con Mahdi da un’inspiegabile carenza di comunicazioni e che Compagnoni e Lacedelli fruirono dell’ossigeno sino in vetta contrariamente a quanto da loro stessi affermato. 

     Queste conclusioni, condivise il 22 maggio 2004 dal Consiglio centrale del Club alpino e riportate nel libro edito dal CAI nel 2007 “K2, una storia finita”, non soddisfano del tutto Bonatti ma confermano nella sostanza le accuse che egli ha rivolto ai suoi compagni d’essersi nascosti per non farsi raggiungere, d’averlo esposto al rischio mortale del bivacco all’aperto sopra gli 8000 metri e d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno supplementare.

     Giornalisti, saggisti e scrittori italiani e stranieri, alpinisti e no, intervengono nella polemica parteggiando in stragrande maggioranza prima per la versione di Bonatti poi per la relazione dei Tre saggi e la sopra richiamata condanna di Compagnoni e Lacedelli da parte del Club alpino. 

      Una delle rare eccezioni è costituita dal giornalista e documentarista inglese Mike Conefrey il quale nel libro del 2015 “Ghosts of K2”, pubblicato in Italia nel 2016 con l’anonimo titolo “Sulla vetta del mondo”, assolve Compagnoni e Lacedelli dall’accusa d’avere mentito sulla fine dell’ossigeno svolgendo un’accurata analisi dei dati storiografici e delle immagini di vetta. 

     Conefrey conclude riconoscendo che i componenti della spedizione italiana del 1954 si mossero sul K2 al massimo delle possibilità di ciascuno e osservando che le vicende dell’assalto finale si svolsero a una quota, quella intorno agli ottomila metri caratteristica dei colossi himalayani, nella quale è facile commettere errori e far saltare, nel corso dell’azione, qualsiasi piano per quanto dettagliato, e dalla quale si riportano spesso ricordi non chiari.

     La sommarissima cronistoria riportata negli ultimi due capitoli conferma che, come accennato più sopra, la polemica non è nata negli ‘ultimi campi’ del K2 o comunque sulla montagna o durante il rientro in Italia o subito dopo, ma è stata avviata e poi ampliata man mano a partire dal 1958 se si vuole addossarne l’inizio all’uno, dal 1961 e più ancora dal 1985 se all’altro.

     Sui motivi che possono avere avuto per sollevarla e insistervi coloro che di quella polemica sono stati protagonisti e vittime, possiamo avanzare solo supposizioni oggi non più verificabili.

     Resta che la presa di posizione contro qualcuno di essi, e non a favore di tutti, segno d’un provincialismo che non sarebbe stato logico aspettarsi dai Tre Saggi e dal Club alpino, è, da qualsiasi parte la si guardi, un madornale errore.

                                                             Conclusioni

     La concordanza tra i racconti di Compagnoni e Gallotti sul punto del salire “il più in alto possibile”, 

     le incertezze e le contraddizioni del tardivo racconto proposto da Lacedelli a favore della tesi che il piano del 29 luglio prevedesse di porre il nono campo in un punto “stabilito” sulla parte alta della ‘spalla’ del K2,

      la sussistenza di evidenti ragioni obiettive per andare a porlo sulla dorsale rocciosa in quanto fuori dalla linea di caduta del seracco sovrastante il ‘collo di bottiglia’

      e la circostanza che le accuse a Compagnoni di violazione dei programmi concordati non risultino in alcun modo contestate o documentate durante o subito dopo o negli anni immediatamente successivi alla spedizione,    

     evidenziano l’inconsistenza delle stesse accuse e la loro costruzione a tavolino da parte di Bonatti a partire dal libro “Le mie montagne”, con l’adesione di Lacedelli solo quando era ormai certa la condanna del suo compagno di vetta e nel penoso tentativo d’evitarla per sé.

     La dura censura emessa nel 2004 dal Club alpino nei confronti dei due componenti della cordata che salì il K2, fondata su un esame solo parziale dei fatti, assunta senza ascoltare nessuno dei diretti interessati all’epoca tutti ancora in vita e decisa senza neppure permettere agli accusati di discolparsi, dovrebbe essere urgentemente rivista.

     L’ipotesi sopra avanzata d’un malinteso circa il contenuto e gli obblighi nascenti per i suoi ideatori dal piano del 29 luglio può rendere comprensibile la proposizione da parte di Bonatti, che rielaborando dal 1961 la sua lettura di quel piano si sentì tradito, delle accuse contro i due che raggiunsero la cima senza di lui e in particolare la durezza verso Compagnoni, 

     anche se sono sotto gli occhi di tutti i danni gravissimi che il proporle e l’affinarle e l’insistervi per decenni hanno causato all’immagine dell’impresa e dell’alpinismo italiano nel mondo.

    Pure considerando la sua soggettiva lettura degli accordi del 29 luglio, e scendendo sul piano delle colpe sposato dal CAI come non vorrei ma ritengo necessario per raggiungere lo scopo che espongo più avanti, 

    rimane da chiedersi come mai Bonatti, alpinista d’eccezione e guida alpina in quello stesso 1954, abbia posto in atto i comportamenti seguenti, risultanti dai racconti dei protagonisti tra i quali lui stesso e che sembra assai difficile non ritenere errati:

     – prevedere il 30 luglio al campo ottavo, come peraltro 

Abram e Gallotti, che fosse possibile usare per il pernottamento di quattro alpinisti al nono campo la sola minuscola tendina ‘Super K2’ di Compagnoni e Lacedelli, appena sufficiente per due, o eventualmente alternarsi in essa sino al mattino, senza correre pesanti e inaccettabili rischi per l’incolumità personale e per il successo del balzo finale del giorno seguente;     

     – muoversi alle 15,30 dello stesso 30 luglio con Abram e Mahdi dal campo ottavo verso il nono, nella prospettiva di pernottarvi col portatore, senza prendere quanto meno  due sacchi-letto di piumino;

     – non rientrare all’ottavo campo ai primi lamenti di Mahdi per il freddo sapendolo privo di calzature adatte al gelo che aveva già colpito Abram malgrado questi ne fosse protetto, o comunque prima che il buio rendesse la discesa problematica o, secondo il suo giudizio, troppo rischiosa nelle condizioni soggettive e oggettive date;

     – mostrarsi a Mahdi angosciato, disperato, in preda al panico e rabbioso contro i compagni, forse provocando e certamente accrescendo il nervosismo del portatore;

     – insistere anni dopo il rientro della spedizione sulla possibilità d’un pernottamento a quattro nella ‘Super K2’ del nono campo, indicandola come “solo di poco” più piccola delle tende in uso all’ottavo, senza controllarne come facilmente poteva le effettive dimensioni e valendosi di tale erronea prospettiva per argomentare le accuse contro Compagnoni e Lacedelli.

     Chiarisco peraltro che scopo di queste righe non è giungere a giudizi negativi sul grandissimo alpinista o sull’uomo Bonatti, ma restituire a Compagnoni la dignità che lo stesso Bonatti non volle riconoscergli e che altri gli hanno negato condannandolo senza prove, da divani non meno comodi del mio, come autore d’una infame e potenzialmente letale macchinazione contro chi aveva allora collaborato al successo della spedizione con gran fatica – e con una generosità purtroppo contraddetta dai comportamenti successivi.

     Mi rendo conto che per arrivarci si deve, e non mi piace affatto, disturbare le ombre di persone che non possono più replicare, ma la posta in gioco impone di superare questo scrupolo.

     Liberata dal fango che per troppo tempo e da troppe parti le è stato versato addosso, la prima ascensione del K2 può infatti tornare a essere ciò che fu sul terreno, una splendida impresa dell’alpinismo italiano.

                                                       __________________

   

  

 

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