Guida per Cattedrali di un Dio minore


(Pubblicato sulla Rivista della Montagna all’uscita della guida “Mesolcina Spluga Monti dell’Alto Lario”)

I volumi della collana Guida dei Monti d’Italia hanno sempre suscitato in me un senso di reverenza quasi religiosa. Il loro sobrio quasi severo aspetto di “breviario” su carta “bibbia” con tanto di segnapagina, poi l’impostazione accurata e rigorosa, l’ambizione di costituire la fonte della storia dell’Alpinismo sulle nostre montagne, danno a questi densi volumi una “autorità” che tutti avvertiamo sfogliandoli. Magari a scapito di una immediatezza di consultazione e di uso pratico. Invano vi troveremmo itinerari preconfezionati pronti per il consumo da parte dell’alpinista di fine settimana. Ma proprio queste loro caratteristiche hanno un elevato potere formativo ed educativo a chi voglia affrontare la montagna con libertà e consapevolezza.

Non mi sembrò vero quando Alessandro Gogna mi propose nell’estate 1982 di collaborare con lui alla stesura del volume della Guida dei Monti d’Italia che riguardava il settore delle Alpi Centrali compreso tra il Làrio e il Reno e tra i passi del Maloja e del San Bernardino. Tanta era la mia considerazione per queste guide, quanta la preoccupazione di poter svolgere un compito che si è poi rivelato lungo e gravoso. Ma estremamente ricco di emozioni e soddisfazioni, delle quali sono grato ad Alessandro.

Il Pian di Spagna, agli imbocchi della Valtellina e del Piano di Chiavenna è una specie di anticamera ai tradizionali sogni degli alpinisti lombardi. Ci si arriva al termine una lunga serie di opprimenti gallerie, intervallate da fuggevoli e abbaglianti scorci sul Làrio. Il vasto piano che ci accoglie è racchiuso da ripidi e selvaggi pendii rocciosi e boscosi, ma lo sguardo e la direzione si volgono impazienti a Est e a Nord Est, verso i famosi “spigoli”, i “ferri da stiro”, le “NE”, gli “aghi” i “precipizi” o le “biancograt” le “corde molle” i “nasi” o le “meringhe”.

E a Nord e a Ovest ? A prima vista non lasciamo alle spalle alcunché tale da distoglierci dal suddetto campionario di attrazioni. Scorgiamo sì qualche tratto di cresta un po’ mossa, qualche bel dosso con promettenti placche sopra il Lago di Mezzòla o l’elegante piramide del Pizzo Stella, che si intravede per poco. Ma sono mete che proprio non reggono al confronto. E quando al ritorno, con ancora vivi nella nostra testa e nei muscoli indolenziti i ricordi e i segni di ciò che abbiamo così intensamente vissuto, le rivediamo di fronte nell’incerta luce del tramonto, non catturano di certo la nostra attenzione.

È perciò convinzione quasi generale che a Nord Ovest del Làrio e a Nord di Chiavenna sorgano monti di scarso interesse alpinistico. Non certo ignorati, anche per la prossimità di ben note località turistiche, ma frequentati al più per distensive escursioni di fine stagione o per organizzare qualche gita sociale. Infatti i pizzi Stella e Tambò sono mete popolari e frequentate anche nella stagione sciistica.

Queste erano più o meno anche le nostre considerazioni nell’estate 1982. Vedrai – mi diceva Alessandro- il terreno per gran parte è facile e in due o tre anni la finiamo.

Invece, appena iniziammo a percorrere questa regione, la prospettiva mutò radicalmente e l’impegno si rivelò promettente di sorprese e soddisfazioni. Anzi in parecchi momenti ci sentimmo come immersi in una entusiasmante avventura.

Guidati dal fiuto e dall’esperienza di Alessandro, percorremmo l’intero territorio e ci rendemmo conto della grande varietà e bellezza di monti che, pur a meno di 100 km da Milano, erano ancora semisconosciuti. Le zone più ricche d’interesse erano naturalmente quelle che più si nascondevano, là dove valli dall’andamento intricato o contorto, difese da soglie sospese, nulla lasciano trapelare dal basso. Quasi volessero concedere le loro bellezze solo a chi avesse un po’ faticato a cercarle.

La nostra prima impressione di questi monti non fu certamente incoraggiante. In un plumbeo mattino di settembre entrammo in Val Bodengo accolti da una totale desolazione. Una disastrosa alluvione aveva distrutto secolari ponti in pietra, cancellato sentieri, causato frane dilavando interi pendii. I danni si erano ancor più estesi a causa di una carrozzabile, allora in costruzione, che tagliava ripidi pendii e la cui più mostruosa assurdità era un enorme viadotto che violava nel modo più volgare la bellezza selvaggia della valle. Quella di essere terra desolata sembrava proprio il triste destino della valle, visto che già Andreas Fortunatus Sprecher scriveva nella sua Palladis Raethicae del 1633: “ Vallis de Bodegno, montes de summa ruina”. Alla vista poi del solitario campanile pendente di Bodengo avemmo la sensazione che da un momento all’altro anche lui crollasse in un quadro apocalittico al quale mancavano solo le trombe del Tuba mirum. Pensammo al Conte Lurani che, giusto un secolo prima, venne come noi col programma di una completa esplorazione della regione, quale già aveva egregiamente fatto per la Val Masino. Fu in breve scacciato da un tremendo uragano e solo per poco si salvò dal crollo della baita che lo ospitava. E non vi tornò più.

Per fortuna quella prima impressione non ebbe seguito; il tempo ha in buona parte rimarginate le ferite e anche i pendii tagliati dalla strada, curati dal consorzio dei valligiani, si stanno inerbando. La valle e le sue confluenti si ostinano, nonostante tutto, a mantenere il fascino di una bellezza drammatica e selvaggia.

Le valli Bodengo e di Darengo sono il cuore alpinistico della regione, ma non meno affascinanti sono le svizzera Val Cama, non percorsa da strade, e Val d’Arbola. Queste dal fondo della Valle Mesolcina si incuneano incassate e solitarie per culminare in belle e ardite creste. Di carattere completamente diverso sono invece le zone più settentrionali come il Rheinwald, l’alta Valle Spluga o le Valli di Ávers: qui ci si trova spesso su splendidi e luminosi altopiani coronati da belle cime anche rivestite di ghiacciai. Ci stupimmo che foto di queste montagne non esistessero nella passata letteratura alpinistica: tante belle e a volte notevoli pareti e creste aspettavano di essere degnamente illustrate.

Ci rendemmo conto di avere tra le mani una magnifica opportunità e, come quando si vuole degustare una bottiglia di raro vino pregiato, ce la prendemmo con calma. Ci pensava Gino Buscaini, il curatore della collana di guide del CAI-TCI, a pungolarci con periodiche pressioni dapprima discrete, poi un po’ preoccupate. Ma la lista di possibili nuove ascensioni non accennava ad esaurirsi, tanto che ne facemmo partecipi anche altri, invitandoli a frequentare questi luoghi. Dopo quattro anni Alessandro presentò in un articolo le impressioni e i risultati dei sopralluoghi fin lì svolti. Nella conclusione confessò che, se si “intendeva fare la guida salendo ogni metro di roccia disponibile, allora si poteva prevedere l’uscita nel 1999!”. Quella che voleva essere solo una battuta paradossale, finì col diventare una profetica previsione. Il lungo tempo intercorso non fu ovviamente dedicato a salire ogni metro di roccia. Pause anche lunghe rallentarono o interruppero le nostre attività. Varie furono le ragioni, non ultima la preoccupazione per un lavoro che si rivelò molto impegnativo pure a tavolino. Difficoltà nascevano anche dall’avere a disposizione una bibliografia alpinistica assai limitata e per lo più risalente a parecchi decenni addietro, comunque inadeguata agli standard di completezza e affidabilità richiesti dalla collana del CAI-TCI. Per fortuna non fummo i soli a renderci conto delle possibilità che offrivano queste montagne. Alcuni alpinisti, sia locali che cittadini, hanno subìto il fascino particolare di questi monti, contribuendo ad ampliare con entusiasmo l’attività esplorativa sui vari terreni e per la loro generosa disponibilità di collaborazione siamo grati. Particolarmente fruttuoso e utile è stato lo scambio di informazioni con il ticinese Giuseppe Brenna, autore della guida Alpi Mesolcinesi del Club Alpino Svizzero, ultimo tassello che completa la sua monumentale descrizione delle montagne del bacino del Ticino. Suoi sono anche tre volumi riccamente illustrati con inedite immagini delle montagne Ticinesi e della Valle Mesolcina. Tutto ciò ha permesso un accurato e completo esame del territorio, confermato dalle quasi 580 fitte pagine di questa guida. Sono qui per la prima volta pubblicate le relazioni di oltre un centinaio di vie nuove, 35 schizzi e 60 foto a colori illustrano la regione. In queste immagini, quanti di noi saprebbero riconoscervi un profilo o una forma nota o familiare? E le belle creste e le ampie pareti qui illustrate, molte per la prima volta, meritavano l’oblio o per lo meno la scarsa considerazione fin qui riservategli?

Il territorio descritto dalla guida ha una ricca varietà di rocce, strutture rocciose e di ambienti. Questi sono di medio-alta montagna, con la presenza di ghiacciai, solo nelle zone settentrionali e centrali. Qui le vette superano i 3000 m, come i pizzi Tambò, il più alto, di Émet, Stella, Galleggione, Por, Suretta e Quadro. Le loro rocce metamorfiche, spesso di mediocre compattezza, determinano forme piramidali, con vasti pendii detritici e altipiani che favoriscono l’escursionismo e un alpinismo di difficoltà medio-basse. Oltre a qualche interessante via su roccia e misto, sono consigliabili le traversate per cresta, spesso lunghe e molto panoramiche. L’interesse per l’arrampicata che, con poche eccezioni, manca in quota, è molto sviluppato sulle strutture rocciose di fondo valle, perlopiù di ottimi gneiss. Inoltre nella stagione invernale qui gelano numerose, interessanti e anche impegnative cascate. La guida riporta anche una descrizione sintetica, ma completa e aggiornata, delle strutture per l’arrampicata sportiva e delle cascate.

Il settore meridionale, formato dalla Catena Mesolcina Meridionale e dalla Catena dei Muncech, si alza a N del Lago di Como e le sue vette più elevate sono attorno i 2600 m. Qui l’ambiente è già prealpino, ma spesso selvaggio e solitario, con elevati dislivelli dal fondovalle. È un territorio poco frequentato, dove la presenza di interessanti strutture rocciose, spesso assai isolate o di non agevole accesso, rende ancora possibile un alpinismo con qualche carattere esplorativo. La tipologia delle rocce e i suoi caratteri strutturali, gneiss compatti a stratificazione in genere verticale, conferiscono al settore meridionale un notevole interesse per l’arrampicata. Nelle zone esposte a S questa è praticabile per gran parte dell’anno. Il cuore di questa regione è la cap. Como, presso il Lago di Darengo, circondata dalle magnifiche guglie della Cresta della Gratella, che culmina a N col Pizzo Campanile. Meno conosciuto perché nascosto, seppur grandioso e selvaggio, è il versante W del Pizzo Cavregasco, con il compattissimo e verticale pilastro NW. Di notevole interesse sono anche il versante ENE del Pizzo Martello che si affaccia sulla bellissima Val Cama, l’isolato e massiccio Sass Castel, il versante W del Pizzo Rabbi alla testata della selvaggia e solitaria Valle Soé, la larga parete E del Pizzo Ledü, già individuabile da Còlico, il complesso versante N del Pizzo d’Alterno e il Precipizio di Strem in Val Bodengo, la cui ardua prima ascensione in “californian style” è stata illustrata anche su questa rivista.

L’elevata nevosità dell’intera regione favorisce lo scialpinismo, soprattutto nella parte settentrionale ed orientale (Rheinwald e Ávers); per i versanti meridionali, spesso assai ripidi e aperti alle correnti umide meridionali, è consigliata una frequentazione soprattutto primaverile.

L’escursionismo vi trova un terreno ideale, e ha le sue più complete e consigliabili espressioni nell’Alta via del Làrio e nel Trekking della Valle Spluga.

La redazione di una guida come questa potrebbe apparire come un lavoro a lungo andare monotono e poco appassionante. Non pochi ci chiedevano se non ci annoiassimo a frequentare sempre le stesse montagne. Eppure lo studiare a fondo una regione e non solo dal punto di vista alpinistico, ha costituito una esperienza estremamente positiva. Conoscere e indagare gli aspetti storici, geografici, naturalistici e umani ci ha dato emozioni e soddisfazioni non certo inferiori a quelli di una prima ascensione. Ha molto arricchito il nostro andare in montagna dandogli un senso più profondo e anche più gratificante. Numerosi sono gli esempi che si possono portare. La sorpresa di trovare molte, varie e originali tradizioni, come quelle nelle valli dell’Alto Làrio che risalgono alla diffusa emigrazione a Palermo di queste genti fin dal ‘600.O come le diffuse testimonianze della cultura dei Walser nel Rheinwald e in Ávers, qui insediatesi alla fine del ‘200. O l’approfondimento di un soggetto apparentemente poco stimolante come la toponomastica, che ci ha riservato molti motivi d’interesse. Consultando infatti anche carte antiche, abbiamo cercato di correggere o introdurre denominazioni che più rispondessero all’uso tradizionale e locale. Così abbiamo reintrodotto la denominazione Catena dei Muncech per definire la lunga e aspra serie di rilievi, con il migliore terreno per l’arrampicata, che dal Passo di S. Iòrio si allunga a E fino al M. Berlinghera. Il termine Muncech, che ora indica i montanari di questa regione, specie le ormai rarissime anziane contadine che ancora indossano l’antico costume, ha una lunga storia. La sua origine risale al ricordo della dominazione franca nell’Alto Lario. Infatti Car­lo Magno diede in feudo alcuni monti (maggenghi) di queste zone al monastero di Fulda nella Franconia, che per lungo tempo vi ebbe una certa influenza. Il dialettale Cech equivale a Francesco o Franco, quindi Muncech significa Monti dei Franchi. Abbiamo così riesumato un toponimo presente su quasi tutti i documenti cartografici dal ‘500 alla prima metà dell’800. In essi la catena era indicata con la forma latina “Francisca Mons”, o con quell’italiana “Monti della Francesca”. Un altro caso singolare è stata l’individuazione del vero toponimo di un alpeggio situato in Val Bodengo. Il merito del recupero è di un suo appassionato frequentatore, Sandro Libertini di Monza, che sta approntando un particolareggiato studio sulla valle. Se ci si addentra a W da Bodengo, proprio ai piedi dell’impressionante Precipizio di Strem si incontra l’alpeggio indicato con Corte Terza, più a monte si trova Corte Seconda e, quasi alla testata della valle, Corte Prima. Denominazioni da tutti accettate e a prima vista giustificate dai momenti della progressiva occupazione degli alpeggi. Eppure la loro logica è solo apparente e frutto di un macroscopico fraintendimento dei topografi dell’IGM di fine ottocento. Studiando la corretta pronuncia locale di Corte Terza, si giunge invece alla denominazione di Corte Arsa, cioè arida per la secchezza dei terreni, qui determinata dalle ghiaie sotto le quali scompare il torrente. Grande è stata la sorpresa e la soddisfazione di ritrovare Corte Arsa e gli altri toponimi ormai dimenticati su tre carte della metà dell’800.

Le carte ufficiali attuali riportano per queste regioni denominazioni spesso errate. Solo l’Ufficio Topografico Elvetico è stato sensibile ai suggerimenti di Giuseppe Brenna e nostri e, nonostante qualche incidente di percorso, ci si avvia su quella bella carta ad una più corretta individuazione dei toponimi. A cominciare dall’annosa controversia Pizzo Martello-Pizzo Campanile, ora chiarita solo sulla carta svizzera, poiché l’ultimo rilievo della carta ufficiale italiana disponibile in commercio risale al… 1932.

Particolarmente accurata è stata l’indagine storico-alpinistica, passando in esame tutta la pubblicistica disponibile. Le nostre ben fornite biblioteche alpinistiche ci sono state utilissime per documentare le prime esplorazioni o risolvere punti controversi. Ma una emozione speciale ci ha riservato il fortunoso e quasi incredibile ritrovamento di un vecchio registro della capanna Como. È stato come trovare un messaggio in bottiglia finalmente approdato al giusto lido. Dopo il naufragio del periodo bellico e una deriva durata oltre mezzo secolo, siamo stati proprio noi i destinatari di questa reliquia. Vi è documentata la frequentazione della capanna dal 1925 al 1939 e, ciò che più ne giustifica l’importanza, le relazioni delle ascensioni che alcuni dei maggiori arrampicatori lecchesi fecero il 26 e 27 giugno 1938. Questo fu il momento più significativo nella storia dell’arrampicata in questa regione. Invitati da Luigi Binaghi, il pittore-alpinista comasco che più si adoperò per l’esplorazione di questi monti, Vittorio Panzeri, Ugo Tizzoni, Gigi Vitali, Giovanni Todeschini, Felice Galbiati, Adolfo Anghileri e Stefano Longhi si scatenarono in una frenetica attività compiendo in due giorni sei difficili prime ascensioni. Sono tutte figure importanti dell’alpinismo lecchese e basta ricordare che Tizzoni poco più di un mese dopo avrebbe salito lo sperone Walker con Cassin e che Vitali l’anno dopo avrebbe vinto la W dell’Aiguille Noire. Panzeri è probabilmente da considerare il rocciatore lombardo d’anteguerra tecnicamente più dotato. Tragico fu invece il destino di Longhi morto trent’anni dopo, alla termine di una crudele agonia sulla Nord dell’Eiger. Sulle pagine ingiallite rivive la cronaca di quel memorabile “week-end da leoni”, illustrata dai disegni di Binaghi, che ci hanno permesso di chiarire alcuni punti controversi sulla parete E del Pizzo Campanile.

Su queste montagne gli alpinisti arrivarono per ultimi o quasi. Estese in una regione favorita da numerose e facili vie di transito tra nord e sud, furono frequentate sin dall’antichità. Lo testimoniano i vari insediamenti epipaleolitici (tra i sette e dieci mila anni fa) sull’altipiano del Pian dei Cavalli in Valle Spluga e forse ancora più antichi verso il Passo Baldiscio. Poi insediamenti più recenti presso San Sisto, nel 3000 A. C., a Borghetto e Montespluga risalenti all’Età del Bronzo. Notissima è l’importanza dei passi di questa regione in epoca storica: vie di migrazioni, vie commerciali, e di contrabbando, che per lungo tempo hanno costituito una fondamentale attività economica per le popolazioni valligiane. Tra Alto Làrio (le storiche Tre Pievi) e il Pian di Spagna ha corso per secoli, specie nel ‘500 e ‘600, un confine assai caldo, dove si sono confrontate le massime potenze europee. Un continuo oscillare di influenze sia politiche che religiose. Anche dopo non mancarono vicende memorabili come l’avventurosa traversata dello Spluga per la gola del Cardinello dei napoleonici nel dicembre 1800, o la fuga degli agitatori mazziniani per il Passo di San Iòrio nel nevoso novembre 1848 o la ritirata delle truppe tedesche per la Strada Regina e i tragici atti finali della dittatura fascista a Dongo. Ora gli alti valichi, cessato il contrabbando, non sono del tutto abbandonati, ma si assiste a un crescente e nuovo traffico: quello dei clandestini.

Numerosi sono anche i personaggi illustri che transitarono o frequentarono queste valli. Singolare è la testimonianza di Leonardo da Vinci nella Valle Spluga alla fine del XV secolo, riassunta in significative righe nel Codice Atlantico, quasi un abbozzo di guida turistica: “Su pel Lago di Como di ver la Magna, è valle di Ciavenna dove la Mera fiume mette in esso lago. Qui si trovano montagne sterili e altissime con grandi scogli. In queste montagne gli uccelli d’acqua son detti marangoni, qui nascono abeti, larici e pini, daini, stambecchi, camozze e terribili orsi. Non ci si può montare se non è a 4 piedi. Vannoci i villani a’ tempi delle nevi con grandi ingegni per fare traboccare gli orsi giù per esse ripe. Queste montagne strette mettono di mezzo il fiume, sono a destra e a sinistra per ispazio di miglia 20 tutte a detto modo. Trovansi di miglio in miglio buone osterie; su per detto fiume si trova cadute d’acqua di 400 braccia, le quali fanno bel vedere; e c’è bon vivere a 4 soldi per scotto. Per esso fiume si conduce assai legname”. Su un’altra pagina del medesimo codice, descrivendo le pareti rocciose della regione, afferma: “E i maggiori sassi scoperti che si trovino in questo paese, sono le montagne di Mandello (Sasso Cavallo e Sasso dei Carbonari, Grignone n.d.r.) vicino alle montagne di Lecco e di Gravidonia inverso Bellinzona a 30 miglia da Lecco e quelle di valle di Ciavenna, …” Sembra quindi che Leonardo si sia inoltrato anche tra i monti dell’alto Làrio, inoltre ci ha lasciato una piccola testimonianza grafica di queste montagne. Infatti nel disegno che ritrae le prealpi lombarde da Milano, già presentato anche sulle pagine di questa rivista, si riconosce accennata la piramide del Pizzo Stella.

Un’altra figura di artista, certamente minore ma notevole e affascinante per l’aria di mistero e avventura che lo segnò, si distinse e lasciò molte testimonianze nelle valli dell’Alto Làrio. È Giovanni Mauro della Rovere, il “Fiamminghino” attivo nella prima metà del seicento. Suoi affreschi sono presenti a Gravedona, Sorico, Brenzio e in altre località, ma a Peglio, poco prima di giungere a Livo località di partenza per la cap. Como, nella chiesa dei santi Eusebio e Vittore, si può osservare il suo capolavoro. È un Giudizio Universale di grande carica espressiva, ricco di una originale capacità narrativa di immediato e rafforzata da un acceso gusto cromatico. Vi si possono scorgere anche la testimonianza di un turbolento periodo storico segnato, pure in queste valli, da guerre di religione, pestilenze e processi di stregoneria. Una sua biografia, redatta con scarsi scrupoli filologici ma suggestiva, la si può trovare nella libro di Amalia Gola Sola “Il Fiamminghino”, Milano 1973. Nel secondo ottocento, quando nelle opere pittoriche la montagna non è più solo sfondo ma diviene finalmente soggetto principale, il pittore lombardo Uberto dell’Orto ritrasse Madésimo e l’alta Valle Spluga e il più famoso Giovanni Segantini stabilì il suo studio a Maloja e qui è ora sepolto. Anche l’arte del nostro secolo è ben rappresentata da queste valli: Alberto Giacometti uno dei suoi più originali interpreti è nativo della Val Bregaglia ed è sepolto a Borgonovo.

Anche qualche testimonianza letteraria ci può essere d’aiuto per cogliere lo “spirito dei luoghi”. La più nota ce la fornisce G. Carducci che fu ospite estivo di Madésimo dal 1888 al 1905 e la sua affezionata frequentazione estiva è testimoniata anche da alcuni significativi momenti creativi. Non sempre la musa ispiratrice ha avuto le classiche sembianze di una affascinante donna, come lo fu l’affascinante scrittrice Annie Vivanti, legata alla lirica “Elegìa del Monte Spluga”. A seguito di una burla fu infatti composta “Ad una bottiglia di Valtellina del 1848”. Per festeggiare il suo primo arrivo a Madésimo fu aperta una vecchia bottiglia del classico vino valtellinese e gli fu fatto credere che risaliva al 1848. Tanta fu la sua emozione che, tornato alla sua residenza a Villa Adele, scrisse di getto la lirica. Un’altra burla giocata al poeta non ebbe però altro sbocco se non una amara disillusione. Alcuni radicali chiavennaschi memori dei trascorsi repubblicani del poeta, ora di sentimento monarchico e particolarmente devoto alla regina Margherita, diffusero la notizia dell’imminente arrivo della regina per il 14 agosto 1891. Ciò provocò un fervore organizzativo per le cerimonie di accoglienza alla cui testa c’era ovviamente Carducci. Alla testa di landò addobbati e bande, tra bandiere e archi trionfali, attese invano alla stazione di Chiavenna l’arrivo della regina e… l’ineluttabile compiersi di quella che fu definita “non un pesce d’aprile, ma una balena d’agosto”.

È però Giovanni Bertacchi il poeta che più ha legato a queste valli la sua opera e la sua vita. Nato a Chiavenna nel 1869 e profondamente ispirato dalla natura alpina, le dedica molta parte della sua produzione poetica già a partire della sua prima importante raccolta, “Il Canzoniere delle Alpi” del 1895. La sua ispirazione è soprattutto elegiaca, animata da un impressionismo pittorico in sintonia con quello della tavolozza cromatica del suo contemporaneo Giovanni Segantini, a lui molto vicino sia nei soggetti che nelle atmosfere. A Bertacchi è intitolato il rifugio presso il Passo di Émet e il poeta ha contraccambiato da par suo dedicandogli, caso forse unico per un rifugio alpino, una sua bella lirica.

Dopo aver ricordato un brillante elzeviro di Dino Buzzati sul Corriere della Sera del 18 agosto 1965, dedicato al Canalone del Groppera, vorrei concludere con una magnifica immagine di queste montagne che ci dà Carlo Linati. Scrittore lombardo attivo nella prima metà del ‘900, dedicò alla sua terra e ai suoi scrittori, Manzoni, Dossi e Lucini, belle pagine raccolte nei due libri “Sulle orme di Renzo” e “Le Tre Pievi”. Dal secondo, pubblicato nel 1922 e che prende il titolo proprio dal nome dell’antica “repubblica” dell’Alto Làrio”, è tratta questa breve pagina che ci comunica l’intensa emozione alla sua prima visione di questi monti. Molto suggestivo è, nel medesimo libro, anche il breve racconto dedicato ad una montanara della Valle di Darengo, per la quale l’invincibile nostalgia dei suoi monti fu la causa del suo destino solitario. Linati frequentò a lungo l’Alto Lario: il 13 luglio 1937 lasciò la sua firma sul libro della capanna Como.

La mattina dopo fummo destati di soprassalto da un gran colpo di vento che spalancò imposte e vetrate.

Un chiarore meraviglioso invase la stanza; tutt’attorno casa s’udiva l’ululo spaventoso delle raffiche.

Donato era accorso alla finestra e, discostate le cortine:

– Oh, guarda, guarda!

Io mi rizzai a sedere e vivi là in fondo all’orizzonte una straordinaria visione.

In quella luce di una trasparenza quasi siderale, raccolta in una scena d’intensa e precisa bellezza, un gruppo di montagne appariva, stagliato sul cielo come una città di leggenda. Non avevo mai veduto nulla di simile. I monti rocciosi e nevati, vestiti alle falde di un azzurro immateriale, di un religioso azzurro, scolpivano, incidevano i loro picchi nell’oro dell’alba con sì veemente nitidezza che si sarebbe detto facesser parte della sua divina essenza. Sopra, il cielo veniva disfumando in un tenerissimo cilestro, dove vedevamo morire l’ultime stelle.

Il vento, che aveva deterso l’atmosfera con furore quasi maniaco per tutta la notte, faceva adesso rivivere quel paesaggio con tale arcana vivezza e gagliardia di linee e di tòni, da recare quasi dolore agli occhi. Pareva passasse in noi stessi l’angosciosa tensione da cui l’aria era posseduta.

E ce ne restammo là tutt’e due, silenziosi, sopraffatti dall’emozione.

Postato il Categorie Cultura Alpina
Itinera Alpina - di Angelo Recalcati - p.za Baiamonti, 3 - 20154 - MI - Tel: 02.33604325 - itineraalpina@fastwebnet.it | Privacy policy