Il Monte Cervino: l’ossessione di Guido Rey

Cervino mio Moby Dick

(pubblicato su ALIAS supplemento settimanale de “Il Manifesto” il 20 gennaio 2001)

Per Natale Hoepli ha presentato agli appassionati della montagna una strenna inaspettata: la ristampa anastatica de “il Monte Cervino” di Guido Rey (Torino 1861-1935); a 97 anni esatti dalla prima edizione, datata 1904 ma uscita nel dicembre del 1903, a 74 anni dalla seconda, entrambe da Hoepli, e a 47 dalla terza e ultima da Viglongo di Torino.

Questa riproposta ci permette di ricordare il contributo alla nostra letteratura di montagna dell’editore milanese. E’ infatti dal 1877, con una guida delle Prealpi Bergamasche, che, forse per rispondere alla nostalgia delle patrie montagne svizzere, ci propone volumi di alpinismo di grande importanza documentaria e ora anche collezionistica. Ricordiamo le relazioni delle spedizioni del Duca degli Abruzzi al Monte Sant’Elia, al Polo Nord, al Ruwenzori, l’atlante di flora alpina del Penzig e del Fenaroli, lo stupendo libro illustrato della Canziani, Piemonte, le Leggende del Cervino di Tibaldi Chiesa, la classica antologia Scalatori, Alpinismo eroico di Comici, Le mie scalate nei cinque continenti di Ghiglione, le opere di Casara: Al sole delle Dolomiti, Arrampicate libere sulle Dolomiti, L’arte di arrampicare di E. Comici e l’antologia di Berti Parlano i monti, per citare solo i più significativi. Ma la gemma è proprio “Il Monte Cervino”. Lo si può giudicare senza incertezza il più “bel” libro italiano di montagna, di sicuro per la forma ma, pur tenuto conto che è passato un secolo, con un po’ meno sicurezza riguardo il contenuto. Fino ad allora la nostra pubblicistica alpina si era in gran parte concentrata nella gloriosa serie dei Bollettini del CAI o nelle pubblicazioni di carattere tecnico come le guide. Il confronto con la produzione europea era sconfortante. Là volumi monumentali illustrati con incisioni, splendide legature figurate, dorature a profusione, testi di alto valore documentario e talvolta anche narrativo. Da noi fragili brossure in autarchica economia. Quella volta Ulrico Hoepli non aveva lesinato mezzi per assecondare i gusti di un raffinatissimo esteta com’era Guido Rey e, con i disegni di Edoardo Rubino e le foto di Vittorio Sella, ha prodotto un libro che nulla aveva da invidiare ai migliori. Fu un notevole successo, anche all’estero. In francese si ebbero almeno 6 edizioni, altrettante in tedesco e tre in inglese. Sandro Prada, più agiografo che biografo di Rey, mormora che il previdente Ulrico, forse preoccupato per l’investimento, avesse concordato un pagamento dei diritti, per così dire, in natura, cioè Rey si portò a casa un po’ di copie….

Nel recente rifiorire di ristampe dei testi più validi della letteratura alpinistica, l’assenza di questo libro cominciava a diventare essa stessa significativa. Sembrava infatti che, soprattutto nella sede storica dell’editoria di montagna, Torino, perdurasse l’ostracismo per il suo autore, ivi solennemente proclamato nei primi anni settanta dagli esponenti più validi del “Nuovo Mattino”. Fu allora che la generazione di Gian Piero Motti, Andrea Gobetti, Alessandro Gogna e Ivan Guerini cominciò a interrogarsi sui perché dell’alpinismo, su concezioni e ideali rimasti per decenni i medesimi di quelli di Guido Rey. Sulle ormai non evitabili o già vissute contraddizioni con una società completamente mutata e con valori resi anacronistici, inadeguati e anche tragicamente stridenti da una serie impressionante di incidenti alpinistici, che letteralmente falcidiò quella generazione.

Guido Rey fu uno dei bersagli più emblematici. Fino ad allora nessuno aveva avuto da ridire che sulla tessera del CAI ci fosse stampato il suo famoso motto “Credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte e bella come una fede”. Così lucidamente lo contrappuntò Alessandro Gogna, disincantato interprete di quel momento: ”Se paragonato al lavoro di oggi alienante e carrieristico l’alpinismo è inutile…Se paragonato all’arte non è nobile, perchè legato al successo come impostazione dell’individuo (raggiungimento della vetta). In quanto alla fede un alpinismo siffatto conduce ad un misticismo esasperato ed elitario che distoglie definitivamente l’individuo dalla vera problematica essenziale della sua vita e conseguentemente della sua società”

Gli ideali e le motivazioni che Rey visse intensamente al suo tempo, erano sì superati e inadeguati e non potevano più dare un senso o un conforto a chi voleva vivere in un modo nuovo la montagna. Ma il risentimento per Rey e il suo libro simbolo, più che l’espressione di una delusione per qualcosa che lui comunque non avrebbe mai potuto dare a quelle generazioni, va soprattutto visto come una reazione al fatto che l’alpinismo ufficiale si fosse appropriato degli ideali di Rey e che continuasse a proclamarli attuali.

Per trovare risposte adeguate avrebbero dovuto guardare altrove e anche lontano. Il movimento alpinistico dalle Alpi si era ormai diffuso nel mondo, non solo, ma diversificato e suddiviso come in tante folle babeliche che più non si comprendevano ed era anche sceso dalle “dentate e scintillanti vette” e ora pure si crogiolava al sole su luminose falesie sopra verdi prati o in riva al mare, ormai immemore della “lotta con l’alpe”.

E’ passato il tempo di un’altra generazione e oggi “Il Monte Cervino” lo possiamo leggere con il distacco e il disincanto con cui si legge un classico. Anzi il più classico dei libri di alpinismo italiani, al quale forse solo “Le mie montagne” di Bonatti contende il primato. Certo, il termine classico va inteso tenendo ben presente il rapporto tra letteratura di montagna e Letteratura. I Classici li considererebbero degli intrusi! Ma noi alpinisti usiamo “classico” spesso, soprattutto per indicare quel periodo, quelle concezioni e quelle imprese dei quali Rey fu una delle prime espressioni e Bonatti l’ultimo grande erede.

Ora lo possiamo leggere senza dovere attendere il colpo di fortuna di trovarlo da un libraio antiquario. Qualche piccolo neo (una tavola fuori testo migrata chissà perché in fondo al volume, la carta troppo bianca, una non ottimale riproduzione delle tavole fuori testo, soprattutto quelle fotografiche) non incide su un prodotto più che decoroso e sulla validità dell’impresa. Certamente può far risparmiare un bel gruzzolo visto che la prima edizione, ma anche la seconda, quando si trovano in vendita, sono offerte a parecchie centinaia di migliaia di lire (e per pudore non specifico esattamente; ma chissà, la fortuna di scovarlo a poco su un banchetto di un mercatino può capitare a tutti!).

Rey proveniva da una ricca famiglia di industriali tessili, strettamente legata alla famiglia di Quintino Sella, ispiratore e fondatore del Club Alpino Italiano nel 1863 e a più riprese ministro delle finanze. I suoi interessi culturali si indirizzavano alla letteratura francese contemporanea, all’arte e alla fotografia pittorica alla quale si dedicò con impegno e passione per lunghi anni. Una rivelatrice mostra del Museo della Montagna di Torino nel 1986 ne documentò gli aspetti a volte originali e sorprendenti ma dove gli elementi quasi costanti ed evidenti si rivelarono essere un estetismo decadente e una velata malinconia. Quest’ultima caratterizzerà anche i suoi scritti. Fu amico di numerosi intellettuali del suo tempo come Giacosa, Thovez, E. de Amicis, Calandra e Pascarella, di artisti come Bistolfi, Delleani, Tallone, che gli fece un ritratto ora al museo d’arte moderna a Torino e di E. Rubino che illustrò “Il Monte Cervino” .

La passione per la montagna fu precoce e anche favorita in una simile famiglia e in un ambiente come quello torinese, in cui operavano ancora i pionieri dell’alpinismo italiano come Vaccarone e Bobba, suoi frequenti compagni di cordata. Anche dopo il dramma della morte in montagna del giovane fratello Mario, l’alpinismo fu una costante della sua vita, pur se il dovere e il lavoro venivano prima di tutto e non gli lasciassero molto tempo libero. Il suo fu un alpinismo anche di alto livello, rivolto ad una varietà di obbiettivi accuratamente scelti e che talvolta avvicinavano i massimi raggiunti a quel tempo. Fu un pioniere dell’alpinismo senza guida ma apprezzò anche la compagnia di guide come Tita Piaz, nella campagna dolomitica descritta in “Alpinismo Acrobatico” (l’altro suo libro famoso edito da Lattes, Torino nel 1914) o i Maquignaz che lo guidarono nella controversa “esplorazione” della Cresta del Furggen nel 1899.

Questa cresta sud est del Cervino era l’ultima rimasta da salire, ma un accentuato strapiombo poco sotto la vetta, aveva sempre impedito di superarne l’ultimo tratto. Persino il famoso Mummery aveva dovuto rassegnarsi e ripiegare sulla cresta di nord est, quella di Whymper e compagni. Rey ingaggiò con questa cresta una “lotta” ostinata, quanto assurda ai nostri occhi. Dopo tre tentativi falliti nel 1890 con Daniel e Antoine Maquignaz, una tregua di ben nove anni non spegne le velleità di conquista. Ma la consapevolezza di non potercela fare “by fair means” lo induce a progettare un “assalto” su due “fronti”: Rey e Antoine Maquignaz saliranno per la Furggen fino agli strapiombi, Daniel con altri compagni giungerà in vetta per la cresta del Leone, la sud ovest. Dalla vetta scenderà per la Furggen fin sopra gli implacabili strapiombi e da qui calerà una corda in aiuto agli amici che attendono. Tutto procede come previsto, la “vittoria” è a portata di voce, si sentono, mancheranno una quindicina di metri…Nonostante un intero inverno a fare esercizi di trazioni il buon Guido non ce la fa e mesti mesti battono tutti in “ritirata”.

Questione finita? No!!!

Dopo due giorni salgono tutti in vetta per la cresta del Leone; raggiungono il margine superiore dello strapiombo e con una scala di corda si permette al monsieur di calarsi. Tenuto dalle robuste braccia delle sue guide può così toccare con mano le rocce dello strapiombo, prendendone per così dire possesso! Onestamente è Rey il primo a dirci che qui l’alpinismo non c’entra più, che non ha senso rivendicare alcuna prima ascensione. E’ stato un gesto quasi privato tra lui e la sua Montagna, forse per lui, misogino senza cedimenti, un atto d’amore. Che generò proprio il libro di cui stiamo parlando. Lo confessò lui stesso a un amico francese: il racconto di quella sua ossessione per la Furggen sarebbe stata la conclusione di un libro sul Cervino.

Il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla storia della montagna, Rey dimostra una vasta e sicura conoscenza delle fonti e dell’intera bibliografia alpinistica. Una simile accuratezza è esemplare ancora oggi e il confronto con recenti e trasandati esiti è mortificante. Nella seconda parte i personaggi si riducono a due Rey e il Cervino. La prosa è certo datata, ma si lascia leggere scorrevole, a volte con piacere, raramente appesantita da prolissità o enfasi. Ci possono più infastidire l’eccessiva trasposizione poetica e una ricorrente patina melanconica e nostalgica. Ma questo è lo stile dell’uomo. Le accuse, tra le molte, di “mistificazione che viene fatta dell’alpinista e del suo agire” o “il quadro risulta falso e artificioso” (G. P. Motti) sono eccessive. Certo se pensiamo alla ricerca del sensazionalismo estremo e al cinismo nello sfruttamento mediatico di gravi tragedie alpinistiche comuni a tante pagine dei molti recenti best-seller alpinistici, i limiti e le debolezze di Rey ci infastidiscono ora come una lieve brezza montana.

Angelo Recalcati   Milano, 20 Gennaio 2001

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